Non l'avrei mai detto, eppure quando rivivo mentalmente questo caotico 2021, il primo libro a cui penso è proprio lui. Un esordio degno del successo che ha riscosso: bello, doloroso e - spesso - brutale, ma soprattutto un ritratto fedele e autentico di ciò a cui la disperazione può portare.
È ambientato in una Glasgow a tratti incolore e opaca come uno shottino di vodka, a tratti bionda e amara come una Tennent's; una Glasgow mai libera di potersi fondere col cielo azzurro che la sovrasta, ma sempre appesantita dall'ombra delle politiche di Margaret Thatcher; una Glasgow in cui respira e patisce la fame Shuggie Bain, l'ultimo dei tre figli di Agnes Bain.
Shuggie, che percorre queste 528 pagine in punta di piedi, con dolcezza, delicatezza e amore, e Agnes, che - al contrario - percorre ogni capitolo arrancando, strisciando e graffiando, sono indissolubilmente legati.
Agnes e Shuggie condividono più del semplice rapporto madre-figlio: sono due facce della stessa medaglia, una medaglia sensibile, fragile e bisognosa d'affetto.
Entrambi percorrono la loro esistenza affamati di cibo per colpa della dipendenza da alcol di Agnes, di affetto per colpa (in parte) della noncuranza del padre di Shuggie e di speranza per via della loro indole.
Un racconto attento, sensibile, doloroso ed estremamente realistico (le descrizioni dei sintomi che caratterizzano le crisi di astinenza e la dipendenza psicologica da alcol sono degne di un manuale di tossicologia forense o di farmacologia).
Douglas Stuart riesce a dare forma ad un amore e legame che va oltre il semplice rapporto filiale.
Una storia che non è mai lineare, va incontro a faticose salite e ripide discese; eppure, in quei brevi momenti in cui si raggiunge la cima, la visuale scalda il cuore.
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