“Ma il sogno che ho fatto non è su di loro, ma su una storia che mi raccontava mia nonna da piccolo, una storia su una lucertola mangiona. Questa lucertola passava il giorno a vagare e a mangiucchiare. Mangiava frutta ed erba, insetti e pesci. Quando si levava la luna, la lucertola si metteva a dormire, e sognava di mangiare. Quando la luna tramontava, la lucertola si svegliava e ricominciava a mangiare. La maledizione della lucertola era di non potersi saziare mai, ma la lucertola nemmeno sapeva che fosse una maledizione: non era tanto intelligente. Un giorno, dopo migliaia e migliaia di anni, la lucertola si svegliò come sempre e come sempre si mise in cerca di cibo. Ma c’era qualcosa che non quadrava. Poi la lucertola se ne rese conto: non era rimasto più niente da mangiare. Non c’erano più piante né uccelli né erba né fiori né mosche. Aveva mangiato tutto: aveva mangiato le pietre, le montagne, la sabbia e la terra. […] Rimaneva solo un sottile velo di cenere, e sotto la cenere – la lucertola lo sapeva – c’era il centro della terra, che era di fuoco, e anche se la lucertola poteva mangiare tante cose, quello non poteva mangiarlo. E allora la lucertola fece l’unica cosa che poteva fare. Si mise sotto il sole ad aspettare, sonnecchiando e risparmiando le forze. E quella notte, mentre si levava la luna, si tirò in piedi sulla coda e mangiò la luna. Per un attimo ebbe una sensazione meravigliosa. […] Ma mentre si godeva quella bella sensazione, qualcosa cambiò: la luna ancora stava levandosi, cercava di sfuggire per poter continuare il suo viaggio nel cielo. Non deve succedere, pensò la lucertola, e si mise di corsa a scavare una buca, sottile e profonda, o abbastanza profonda da raggiungere il fuoco al centro della terra, e ci ficcò dentro il grugno. Così la luna non potrà andarsene da nessuna parte, pensò. Si sbagliava. Perché come è natura della lucertola mangiare, la natura della luna è levarsi, e per quanto la lucertola stringesse le fauci, la luna continuò a levarsi. […] E allora la lucertola esplose, e la luna schizzò nel cielo e riprese il suo cammino. […]
La lucertola tornò, ma questa
volta non era più una lucertola, ma he mea helekῡ: una cosa
che sta eretta. E questa creatura si comportava esattamente alla stessa maniera
della sua antenata da tempo scomparsa: mangiò e mangiò e mangiò, finché un
giorno anche lei si guardò intorno e si rese conto che non era rimasto più
niente, e anche lei fu costretta a mangiarsi la luna”.
Verso il paradiso, Hanya Yanagihara
Edito Feltrinelli
Costo 22€
In bilico, su una fune corrosa dal
passaggio dei nostri avi, veniamo persuasi a non scrutare il paesaggio che ci
circonda e a focalizzare la nostra attenzione su un punto fisso per noi privo d’importanza.
Percorriamo il primo tratto con una sicurezza fuori dal comune: chi ci ha
preceduti ci osserva con ammirazione e orgoglio. Man mano che procediamo,
impariamo a sopportare la spiacevole sensazione della corda sfibrata a contatto
col nostro corpo e a mantenere l’equilibrio nei tratti più difficili. Sembriamo
– e ci sentiamo – invincibili. Eppure, nessuno ci ha preparati al dubbio, all’incertezza
e all’imprevedibilità del mondo che ci circonda. Queste variabili si abbattono
sul nostro essere trasformandoci in qualcosa che stentiamo a riconoscere: chi e
cosa siamo realmente?
A percorrere questo sottile
groviglio di fili intrecciati in un’America diversa da quella storicamente
conosciuta e diretti ‘Verso il paradiso’ ritroviamo: David, Charles,
Edward, Nathaniel e Peter.
‘Verso il paradiso’ con le sue 764 pagine è, infatti, suddiviso in tre parti ambientate in tre epoche differenti (1893, 1993 e 2093) unite tra loro dagli animi, dalle paure e dalle passioni di questi personaggi e dalla dimora in cui abitano. Una residenza a Washington Square, New York, sarà l’epicentro di ogni racconto adattandosi alle esigenze dei suoi ospiti e della realtà in cui essi vivono.
Così, la ritroviamo abitata nel 1893 dalla facoltosa famiglia Bingham e situata in una New York facente parte di un’associazione di Stati che garantiscono la libertà sessuale e sentimentale dei propri cittadini: gli Stati Liberi. Nathaniel e David Bingham, rispettivamente nonno e nipote, incarnano in queste pagine il classico scontro generazionale che vede tipicamente frapposti genitori-figli: l’esperienza vorrebbe insegnare all’innocenza e alla spontaneità a preservarsi, senza comprendere quanto sia importante vivere, consumarsi, rimanere feriti ed imparare dai propri errori; viceversa, l’inesperienza vorrebbe convincere la saggezza a guardare ancora una volta con occhi incantati e speranzosi ciò che li circonda, senza comprendere quanto sia doloroso riaprire vecchie cicatrici. David dovrà ragionare profondamente sul significato e sulle varie accezioni della parola libertà, mentre il suo corpo darà segni di cedimento e fragilità.
Nel 1993, invece, la ritroviamo occupata
da Charles Griffith e dal suo giovane compagno David. Entrambi saranno
costretti a scendere a patti con l’aspetto più crudele dell’esistenza: la
perdita degli affetti più cari. La città in cui vivono è, infatti, provata dall’epidemia
di HIV e dalla sua più brutale conseguenza: l’AIDS. Charles sarà così costretto
a perdere alcuni dei suoi più cari amici. Al contrario, David vedrà riemergere parte
del suo passato e della sua infanzia nelle isole delle Hawaii.
Nel 2093, New York è profondamente
diversa nell’animo e nell’aspetto: regole rigide e severe governano la vita di
ogni abitante e nulla è più come sembra. Charlie, dovrà riuscire a superare la
morte di una persona amata e allo stesso tempo cercare di conoscere e capire le
menzogne del mondo in cui è nata.
Leggere quest’opera consente di
riflettere su un enorme numero di tematiche: immigrazione, omosessualità,
libertà, ricchezza, povertà, malattia, fragilità mentale, fragilità emotiva,
bisogno di essere amati, paura di prendere la decisione sbagliata e molto
altro. Ogni America alternativa, creata in questo volume, ha bisogno di essere
ascoltata e di mostrarci qualcosa. Nel mio cuore, devo essere sincera, rimarranno
le descrizioni, i paesaggi e la vita delle isole Hawaii. Quando Hanya Yanagihara
racconta e descrive questi luoghi metà abitati e metà selvaggi, non si può non
rimanere incantati. La stessa bellezza e particolarità de ‘Il popolo degli
alberi’, altro suo libro, rinasce e rivive nel secondo racconto di questo
volume. Le sue opere hanno la capacità di riportare all’essenza e sono pregne
di quella musicalità e armonia insite nella storia del genere umano. La pecca,
che rende difficoltosa la lettura, è la presenza di un innumerevole numero di
refusi ed errori di traduzione. Ciononostante, in alcuni punti, riesce comunque
ad emergere il fascino della scrittura della Yanagihara. Buona lettura.
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