venerdì 30 ottobre 2020

Dune

 “- A che cosa stai pensando? - gli chiese Jessica.

-Penso che la spezia vale seicentoventimila solari al decagrammo sul mercato libero, oggi. È una ricchezza che può comprare tante cose!

- Anche tu sei stato afferrato dall’avidità, Wellington?

- Non dall’avidità.

- E da cosa, allora?

Scosse le spalle. – La futilità. – La fissò. – Vi ricordate di quando avete provato la spezia, la prima volta?

-Sì, ha un gusto di cinnamomo.

- Non ha mai due volte lo stesso gusto- replicò Yueh. - È come la vita, ha ogni volta un sapore diverso. Alcuni pensano che la spezia induca una reazione di sapore favorevole. Il corpo, una volta imparato che una cosa è buona per lui, l’accetta, e ce ne trasmette il sapore come gradevole… leggermente euforico. Come la vita, questa sostanza non può essere prodotta per sintesi.”

 

Dune, Frank P. Herbert

 

Edito Fanucci Editore

Costo 9,90 (vecchia edizione)

 

Il primo pensiero, una volta portata a termine la lettura, è stato il realizzare quanto questo libro fosse complesso, ben costruito ed estremamente chiaro. Avevo già intuito esclusivamente dalla lettura della trama il peso fantascientifico dell’opera, ma non avrei mai pensato potesse essere così piena e così vera sotto tanti altri punti di vista (religioso, militare, ecologico, scientifico e sociale). Tutt’ora, mi rimane addosso la sensazione che non si tratti affatto di un’opera di fantasia, bensì ricalchi perfettamente fatti storici appartenenti al nostro mondo. Muad’Dib - ovvero «Colui che indica la Strada» - mi ha ricordato fortemente un’altra figura - che non cito per evitare accuse di eresia - che è tutt’oggi molto acclamata e sulle cui parole si basano le fondamenta della nostra cultura: non riesco a scindere le due storie, le due vite. È come se Herbert avesse cercato di celare alcune verità storiche all’interno di un’ambientazione fantascientifica, rendendo così ancora più affascinante l’opera creata.

Il romanzo ha inizio con il trasferimento della casata degli Atreides, per ragioni politiche, da Caladan – un pianeta ricco e prospero – ad Arrakis, anche detto Dune, conosciuto in tutta la galassia come un pianeta fortemente inospitale. I personaggi che si muovono sul suolo desertico di Dune, si trovano ad osservare i creatori (enormi vermi dalla bocca costellata da denti aguzzi e che vivono nel sottosuolo) e sono costretti all’interno di tute distillanti sono molteplici; quelli che più hanno attirato la mia attenzione sono: la popolazione autoctona, il binomio Paul-Muad’Dib, la Bene Gesserit Jessica, il Duca Leto, il dott. Yueh e il mentat Hawat.

La popolazione autoctona, i cosiddetti Fremen, è costretta ad una rigida disciplina (ad esempio uso di tute distillanti, in grado di riciclare l’acqua persa attraverso il sudore o altri fenomeni fisiologici, e uso di una particolare tecnica di movimento) sia per via della convivenza con le creature del deserto, sia per via della scarsità delle fonti idriche che caratterizzano il pianeta. Mi ha incantato osservare la loro capacità di adattamento: dal modo in cui si muovono sulla sabbia, al modo in cui fanno proprio – sognando un futuro diverso - un territorio così difficile.

Al contrario, sono stata indecisa fino alle ultime pagine se apprezzare o meno il personaggio di Paul – poi noto come Muad’Dib- perché impressionata dallo sguardo – spesso molto freddo – che è in grado di riservare al mondo, ai suoi cari e nei suoi stessi confronti. Ora, a lettura ultimata, posso dire di averlo compreso e di aver capito quanto sia difficile mantenere calore quando si è costretti ad un terribile scopo e si hanno grandi responsabilità. Inoltre, una delle caratteristiche del binomio Paul-Muad’Dib che più mi hanno fatto riflettere è stato l’ateismo, celato il più possibile, che appartiene all’uomo di tutti i giorni (Paul); un uomo totalmente diverso da quello acclamato dalle folle, dal profeta richiesto dal popolo (Muad’Dib).

“E pensò: Sono un seme.

Improvvisamente vide quanto fosse fertile il terreno sul quale era caduto, e, rendendosi conto di questo, il suo terribile scopo lo soverchiò, insinuandosi in quello spazio vuoto dentro di lui, minacciando di soffocarlo di dolore”.

Sin dagli albori della sua esperienza tra i Fremen, Paul è consapevole di quanto ogni messaggio - di cui si fa portatore - possa essere frainteso e di quanto sia utile ai fini politici l’essere considerato divino, saggio, profeta.

Riporto il seguente passo:                         

 “Quando la legge e il dovere sono una cosa sola, unita dalla religione, noi perdiamo un po’ della nostra consapevolezza. Non siamo più pienamente coscienti, non siamo più individui completi.

Da «Muad’Dib: Le novantanove meraviglie dell’universo» della Principessa Irulan

Le parole che porto dentro al cuore e che ricordo perfettamente, anche a distanza di mesi dalla lettura, sono le seguenti: “Dio creò Arrakis per temprare il fedele. Dalla «Saggezza di Muad’Dib» della Principessa Irulan”.

È stato ancora più interessante notare come ciò che per alcuni è manna dal cielo o segno della presenza della divinità, per altri è esclusivamente accurata progettazione. In questo è fondamentale Jessica, madre di Paul, concubina del duca Leto e membro della sorellanza Bene Gesserit; è lei, infatti, che nota il lavoro compiuto tempo addietro da una Missionaria Protectiva – facente parte della sorellanza - al fine di influenzare la religione dei Fremen, tramite miti e profezie, e garantire così l’accoglienza futura di una sua sorella.

Un personaggio che non si può non ammirare è il duca Leto: i suoi valori e il suo sacrificio mi hanno commossa all’inverosimile. Al contrario, ho trovato particolarmente fastidioso il mentat Hawat, forse più del dott. Yueh: non mi ha convinto il loro modo d’agire.

In conclusione, Dune è un’opera magistrale, poetica, profetica e filosofica che merita la nuova popolarità che sta ricevendo, soprattutto grazie al film in uscita. Mi auguro vi piaccia. Buona lettura.


(foto mia)


lunedì 12 ottobre 2020

La guerra dei papaveri

 “Jiang la stava preparando ad alcune eventualità, a un insieme di nuovi concetti. Come si fa a spiegare ai bambini cosa sia la forza di gravità prima che questi sappiano cosa significa cadere? Certe cose possono essere apprese tramite la memorizzazione, per esempio i libri di storia o di grammatica. Altre, invece, hanno bisogno di tempo per essere impresse nella mente, per avverarsi in quanto parte imprescindibile dello schema di tutte le cose. Il potere stabilisce ciò che è accettabile e ciò che non lo è, le aveva detto una volta Kitay. Si poteva forse dire lo stesso anche per la trama del mondo naturale?Jiang cambiò la percezione del reale di Rin. […] Imparò a non rinnegare le cose che Jiang le mostrava solo perché erano incompatibili con la sua precedente percezione. […] 

«Cosa si intende con la parola dèi?» domandò Jiang. «Perché abbiamo gli dèi? A cosa serve un dio nella società? Analizza queste questioni. Trova le risposte.» […]

I concetti separati nella mente di Rin si connessero a formare una rete che sembrava essere sorta dal giorno alla notte. Le basi che Jiang aveva gettato, ora acquisivano significato completo e assoluto. […]

Jiang la guardò di sbieco. «Sai cosa significa la parola enteogeno?» Lei scosse la testa. «Indica la genesi della divinità interiore» disse lui. Jiang allungò la mano e la toccò con la punta del dito nello stesso punto sulla fronte. «La fusione tra dio e uomo.»

«Ma noi non siamo dèi» rispose lei. […] «Che differenza c’è tra dio interno ed esterno? Qual è la differenza tra l’universo racchiuso nella tua mente e quello esterno?»”


La guerra dei papaveri, R. F. Kuang

 

Edito Oscar Vault

Costo 22€

 

La narrazione de La guerra dei papaveri ha inizio con lo svolgimento da parte della protagonista, Rin (un’orfana di guerra, affidata alle cure di una fredda famiglia implicata nella distribuzione illegale di oppio), di un esame fortemente selettivo, il kējǔ, il cui superamento le consentirebbe di allontanarsi dalla condizione di sfruttamento in cui è cresciuta e di rifiutare il matrimonio combinato a cui è stata costretta, per poter plasmare da sola, o quasi, la propria esistenza. Così, da una situazione apparentemente ordinaria, si viene introdotti nel continente del Nikam, il cui passato, caratterizzato dall’alternarsi di periodi di pace dall’equilibrio precario ad altri sanguinosi e turbolenti, e il cui presente sono tutt’altro che banali. 

Nell’epoca in cui sono narrate le vicende, la regione è suddivisa in 12 province, ciascuna amministrata da un signore della guerra, unificate sotto il governo dell’Imperatrice, conosciuta anche – per via dei poteri conferitegli dagli dèi - come la Vipera. Nel corso dei secoli, infatti, si è cercato di raccogliere le varie aree sotto la guida di un’unica figura per evitare non solo i conflitti interni, ma soprattutto per poter contrastare efficacemente le mire espansionistiche della Federazione di Mugen, sita in un’isola adiacente al continente. Durante il periodo di crescita e formazione di Rin, riuscita a superare il kējǔ e ad entrare all’Accademia (la scuola militare più prestigiosa del Nikam), rincominciano i conflitti tra le due potenze (Nikam e Mugen). Eppure, è riduttivo relegare la trama di questo volume al semplice inasprirsi dei conflitti tra i due paesi; infatti, come si evince dall’estratto riportato sopra, il leitmotiv dell’opera è rappresentato dal bisogno di porsi domande in tutti gli ambiti e malgrado le proprie convinzioni del momento. Noi tutti dovremmo concederci del tempo per ampliare le nostre visioni, per ragionare su credenze e comportamenti spesso dati per scontati, anche quando pensiamo di essere giunti alla rivelazione finale, alla verità assoluta. Perciò, risulta difficile definire e descrivere chiaramente tale volume: i temi affrontati non sono mai netti e unici, si confondono e sfumano l’uno nell’altro. A dimostrazione di ciò, riporto il seguente passo:

Di sicuro, ce l’avrebbe fatta a rimettersi in pari. Ma quel problema si sarebbe ripresentato tutti i mesi. Ogni dannato mese il suo utero si sarebbe lacerato, l’avrebbe lasciata in balia di impeti d’ira e l’avrebbe resa gonfia, impacciata, rintronata e, cosa peggiore di tutte, debole. Poco da stupirsi che le donne di rado restassero alla Sinegard. Doveva sistemare questa faccenda”.

Rin, giunta da un ambiente rurale e poco scolarizzato, si trova per la prima volta alle prese con un fenomeno fisiologico – le mestruazioni -- di cui fondamentalmente non sa nulla ed inizia a riflettere sulle implicazioni che questo avrà sulla sua vita, sul suo addestramento e sulla sua carriera. La ricerca di una via di fuga raccoglie in sé sia il bisogno di allinearsi agli standard maschili, sia l’enorme problema della disinformazione e la necessità di una formazione sessuale (anche nel mondo reale persiste la quasi totale ignoranza su tali questioni), sia il problema dell’irreversibilità di alcune scelte. Non mi discosto dalla soluzione da lei trovata (che non cito per evitare spoiler), perché so quanto possa essere invalidante il ciclo mestruale (non solo a livello fisico – crampi – ma soprattutto a livello mentale – stanchezza, debolezza, confusione ecc), ciononostante mi dispiace sia stata costretta (tutti vogliamo assicurare il nostro futuro) ad una scelta così drastica e dolorosa, senza prendere in considerazione eventuali ripensamenti. Ecco cosa mi ha colpito: la richiesta di continui sacrifici da parte del corpo femminile, non solo in quest’opera fantasy ma anche nella vita di tutti i giorni, come se fossero scontati, normali e necessari.

Un altro estratto interessante è il seguente:

“Ricominciò a farsi delle bruciature. Nel dolore trovava un sollievo confortante e familiare. Era un compromesso cui era abituata. Il successo richiedeva sacrificio. Il sacrificio significava dolore. Il dolore significava successo. Smise di dormire. Prese a sedersi in prima fila per non appisolarsi. Soffriva di costanti mal di testa. Aveva sempre lo stimolo di vomitare. Smise di mangiare. Divenne infelice. Del resto, tutte le alternative l’avrebbero relegata all’infelicità”.

Ed il senguente:

«Mi chiedo che aspetto abbiano i soldati federati» disse Kitay mentre scendeva dalla montagna per procurarsi armi affilate all’armeria. «Hanno braccia e gambe, suppongo. Forse anche una testa.» «No, intendo, a chi somigliano?» chiese Kitay. «Ai nikariani? Tutti gli abitanti della Federazione provengono dal continente orientale. Se non sono come gli esperiani, allora devono avere una faccia in qualche modo normale.» Rin non capiva che importanza potesse avere. «E cosa c’entra?» «Non vuoi vedere che faccia ha il nemico?» chiese Kitay. «No, non voglio» rispose lei. «Perché in quel caso potrei considerarli umani. Ma non lo sono. Stiamo parlando della gente che durante l’ultima invasione dava l’oppio ai bambini di due anni. Della gente che ha massacrato gli speerliani.» «Forse sono più umani di quanto pensiamo» disse Kitay”.

 Cosa posso aggiungere? Ben poco, tanti altri passi mi hanno colpita ed emozionata, ma nel complesso posso dire di aver apprezzato la trama, i personaggi e l’ambientazione. Aspetto con ansia il secondo volume per capire ulteriormente l’intreccio e cercare risposte ad alcuni quesiti.

In conclusione, se volete immergervi in un fantasy entusiasmante dal profumo dolciastro di oppio e in un mondo in cui le arti marziali sono fondamentali, in cui alcune divinità cercano vendetta attraverso gli uomini e in cui esiste un luogo chiamato Chuluu Korikh, allora siete nel posto giusto. Buona lettura.

Ringrazio infinitamente @attimidiprosablog per aver organizzato l'evento, la OscarVault per averci concesso il libro in anteprima e i miei compagni d'avventura @metanfetalibri e @laragazzacalabrese

I link per accedere ai loro blog sono i seguenti:

www.attimidiprosablog.blogspot.com

www.laragazzacalabrese.blogspot.com

www.appuntidiunlettorecompulsivo.blogspot.com

(foto mia)

martedì 6 ottobre 2020

Moby Dick

 “Alla base dell’albero maestro, esattamente sotto al doblone e alla fiamma, il Parsi s’era inginocchiato di fronte ad Achab, ma tenendo stornato il capo chino; […]

“Sì, sì, marinai!” gridò Achab. “Guardatela là, badateci bene: la fiamma bianca non fa che illuminarci la via per la Balena Bianca! […] Oh! Tu limpido spirito di limpido fuoco, che su questi mari io un tempo adorai come un persiano, finché nell’atto sacramentale tanto mi bruciasti da portarne tuttora sfregio, adesso ti conosco, limpido spirito, e adesso so che la sfida è il giusto modo d’adorarti. Né amandoti né riverendoti sarai benevolo, e anche odiandoti tu non puoi che uccidere; e tutti uccidi. Non è uno sciocco impavido colui che ora t’affronta. Io riconosco il tuo indicibile, insituabile potere; ma fino all’ultimo rantolo della mia tellurica vita io contrasterò il suo incondizionato, incompleto dominio su di me. Nel mezzo dell’impersonale personificato, qui sta una personalità. Sebbene al più soltanto un punto, da qualsiasi luogo provenga, in qualsiasi luogo vada, nondimeno, nel mio viver terreno, la regale personalità vive in me e si rende conto dei suoi regi diritti. […] Tu puoi accecare; però io posso procedere a tentoni. Tu puoi consumare; però io posso essere cenere […]” ”.

Moby Dick, Herman Melville


Edito Feltrinelli

Costo 12

 

Mi sono avvicinata a questo intramontabile classico quasi per caso, partecipando al gruppo di lettura organizzato da @cantodellapianura, e oggi -dopo quasi due mesi- non posso fare a meno di continuare a ringraziarla per avermi fatto avvicinare ad un’opera così intensa, profonda e folgorante. Sin dalla prima pagina ho ritrovato nella narrazione di Ismaele una sensibilità che mi ha lasciata stupefatta e tremante: “Chiamami Ismaele. Alcuni anni fa – lasciamo perdere precisamente quanti – avendo poco o punto denaro nel borsellino e nulla in particolare che m’interessasse a terra, pensai di fare vela qua e là per un po’ e andarmene a vedere la parte acquea del mondo. È un sistema che ho io per scacciar l’umor nero e regolare la circolazione. Ogni qualvolta che m’accorgo di star volgendo la bocca al torvo, ogniqualvolta che nell’anima mia umido e piovigginoso s’instaura novembre, ogniqualvolta che m’accorgo di soffermarmi involontariamente davanti ai magazzini di bare e di accodarmi a tutti i funerali che incontro, […] allora stimo sia ormai tempo di mettermi in mare al più presto possibile”. Cosa mi colpisce di più? Probabilmente la conoscenza dettagliata da parte di Ismaele della propria anima – infatti, nonostante la giovane età, mostra una percezione emotiva immensa; in quanti possono dire lo stesso? Non ignoriamo spesso noi stessi e ci rendiamo conto di stare male quando è già troppo tardi, ovvero quando abbiamo già in parte riversato inconsciamente il nostro novembre su chi ci sta vicino?

Così, queste iniziali poche righe ci introducono nel suo mondo e allo stesso tempo presagiscono la rotta che verrà intrapresa in queste 641 pagine: ogni parola ci porterà sempre più vicini al confuso e spesso inesplorato abisso dell’animo umano. Infatti, alla personalità narrante, sensibile e filosofica di Ismaele, si affiancheranno ben presto quella più pratica – ma pur sempre saggia – di Queequeg, quelle meno introspettive ma ilari e crude di Starbuck e Stubb e, infine, quella selvaggia, tenebrosa ed estremamente acuta di Achab (naturalmente, ci sono molti altri personaggi, ma sarebbe impossibile comprenderli tutti). Eppure, il fascino di questo volume risiede anche nei paesaggi descritti, nei riferimenti storici e nella capacità di Melville di alternare capitoli in cui sono incluse informazioni scientifiche riguardanti i cetacei, che colmano il lettore di meraviglia ed incredulità, a capitoli che trasportano all’interno di una vera e propria opera teatrale. Perciò, prima di indirizzare il mio pensiero verso Achab, poiché dalle sue scelte dipenderà il destino di molti, vorrei soffermarmi sul vero protagonista del racconto:

Ma come? Genio nel capodoglio? Ha mai il capodoglio scritto un libro, tenuto un discorso? No, il suo grande genio si dichiara nel suo non far nulla di particolare per dimostrarlo. Vieppiù si dichiara nel suo piramidale silenzio”.

Ed ecco chi impareremo a conoscere: l’immenso capodoglio e i suoi simili.

Il capodoglio è il cetaceo più grande munito di denti (non fanoni) e il più ricercato dalle baleniere del mondo del XIX secolo per via della grande quantità di spermaceti - una sostanza cerosa, semiliquida che veniva comunemente usata come combustibile per le lampade a olio e per la fabbricazione di candele - contenuta all’interno della sua noce, ovvero il suo cranio. Si ipotizza che il liquido sia implicato nell’ecolocalizzazione (biosonar) e nella galleggiabilità del cetaceo (prima dell’immersione viene garantito l’accesso di acqua fredda all’interno del compartimento ospitante la sostanza, la diminuzione della temperatura implica una solidificazione dello spermaceti con conseguente modifica del rapporto massa/volume e quindi modifica della densità; questo consentirebbe al capodoglio delle immersioni in profondità senza eccessivo sforzo muscolare). Eppure, il capodoglio è molto di più: è una creatura estremamente sensibile e intelligente che mostra un’eleganza impareggiabile sia grazie ai suoi movimenti sinuosi che grazie al suo tipico sfiato (nei capodogli lo sfiatatoio - l'organo respiratorio dei cetacei con funzione simile alle narici animali da cui prende origine – è unico e non doppio a differenza dei suoi simili). In un passo, attraverso Achab, Melville ci comunica la grandezza di questo essere:

“Era una testa nera e incappucciata; e appesa com’era in mezzo a quella bonaccia così intensa pareva la Sfinge nel deserto. “Parla, immensa e veneranda testa,” bisbigliò Achab, “tu che, sebbene sguarnita di barba, pure qua e là ti mostri canuta di muschi, parla poderosa testa, e dicci il segreto che è in te. Di tutti i tuffatori, tu ti sei tuffata più a fondo. Questa testa su cui adesso brilla alto il sole, s’è mossa tra le fondamenta del mondo. Dove immemori nomi e flotte arrugginiscono, e taciute speranze a ancore marciscono; […] Oh testa! Tu hai visto abbastanza da schiantare i pianeti e far d’Abramo un miscredente, e non sei capace d’una sola sillaba!””.

Così, nel complesso, le descrizioni che Melville elabora non lasciano l’animo del lettore indifferente. Eccone un’altra, in questo caso sulla Balena Giusta: 

Altri poeti hanno gorgheggiato le lodi del tenero occhio dell’antilope e del leggiadro piumaggio dell’uccello che mai si posa; meno etero, io celebro una coda. […] Il corpo compatto e rotondo della sua radice s’estende in due ampie, solide, piatte palme ovvero patte, che gradualmente s’assottigliano fino a meno d’un pollice di spessore. All’inforcatura ovvero congiunzione, queste patte leggermente si sovrappongono per poi divergere obliquamente l’una dall’altra come ali, lasciando nel mezzo un vasto spazio vuoto. In nessuna creatura vivente le linee della bellezza sono più squisitamente definite che negl’orli a mezzaluna di queste patte”.

I toni cambiano e diventano più intensi, duri e tenebrosi quando si parla di Moby Dick: mostruosamente bianco, con la mandibola storta e con occhi che sono in grado di comunicare odio e, inoltre, “congiuntamente posseduto da tutti gli angeli che caddero dal cielo”. Moby Dick non è un capodoglio, è la reincarnazione della parte più indifferente, selvaggia e violenta della natura -matrigna- e questo ci viene comunicato in ogni parola pronunciata da Achab sul suo conto. Ben presto, infatti, l’ossessione di Achab renderà impossibile parlare dell’uno senza citare l’altro. In uno dei pezzi più belli e chiarificanti dell’opera, viene chiarito uno dei dubbi principali del lettore: perché Achab attribuisce al capodoglio sentimenti umani? È davvero così irragionevole?

““Vendetta su una muta bestia!” gridò Starbuck, “Che semplicemente vi colpì per il più cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato con una creatura muta, capitan Achab, mi sembra blasfemo.”

“Ascolta ancora una volta lo strato più fondo. Tutti gli oggetti visibili, amico, non sono che maschere di cartapesta. Ma in ogni evento – nell’atto vivente, nell’azione indubbia - lì, qualcosa di sconosciuto ma tuttavia raziocinante fa spuntare la sagoma delle sue fattezze da sotto la maschera irrazionale. Se l’uomo vuol colpire, colpisca trapassando la maschera! Come può evadere il prigioniero se non aprendosi un varco attraverso il muro? Per me, la balena bianca è quel muro, ficcatomi contro. Talvolta penso che al di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Mi occupa; mi colma; io vedo in lei un’atroce potenza invigorita dal nerbo d’un imperscrutabile malanimo. Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio di più; e sia la balena bianca l’agente o sia la balena bianca il mandante, io sfogherò su di lei quell’odio. […]””.

Cosa comunicano queste parole? Achab è più profondo e intelligente di quanto si pensi e capisce la necessità umana di avere uno scopo, di avere un capro espiatorio. Chi, dopo un’esperienza traumatica, non proverebbe a sconfiggere il senso di impotenza, di insignificanza e di fragilità attraverso l’ira? In questi casi, non si ha il diritto di odiare per poter cercare di guarire? Il rapporto tra i due è più complesso di quanto si possa pensare, l’odio è solo il primo strato, in profondità si cela un’enorme consapevolezza e un’aspra e inclemente visione del mondo. Achab fa riflettere sul bisogno umano di avere un nemico, ma non solo. Vi invito a leggerlo e a ritrovarvi in lui.



(foto mia)




Gideon La Nona

“«Basta» sbottò la Reverenda Figlia, con la voce affilata come un rasoio. «Preghiamo.» Il silenzio scese sull’assemblea, come i lenti fiocch...