“Alla base dell’albero maestro, esattamente sotto al doblone e alla fiamma, il Parsi s’era inginocchiato di fronte ad Achab, ma tenendo stornato il capo chino; […]
“Sì, sì, marinai!” gridò Achab. “Guardatela là, badateci bene: la fiamma bianca non fa che illuminarci la via per la Balena Bianca! […] Oh! Tu limpido spirito di limpido fuoco, che su questi mari io un tempo adorai come un persiano, finché nell’atto sacramentale tanto mi bruciasti da portarne tuttora sfregio, adesso ti conosco, limpido spirito, e adesso so che la sfida è il giusto modo d’adorarti. Né amandoti né riverendoti sarai benevolo, e anche odiandoti tu non puoi che uccidere; e tutti uccidi. Non è uno sciocco impavido colui che ora t’affronta. Io riconosco il tuo indicibile, insituabile potere; ma fino all’ultimo rantolo della mia tellurica vita io contrasterò il suo incondizionato, incompleto dominio su di me. Nel mezzo dell’impersonale personificato, qui sta una personalità. Sebbene al più soltanto un punto, da qualsiasi luogo provenga, in qualsiasi luogo vada, nondimeno, nel mio viver terreno, la regale personalità vive in me e si rende conto dei suoi regi diritti. […] Tu puoi accecare; però io posso procedere a tentoni. Tu puoi consumare; però io posso essere cenere […]” ”.
Moby Dick,
Herman Melville
Edito Feltrinelli
Costo 12€
Mi sono
avvicinata a questo intramontabile classico quasi per caso, partecipando al
gruppo di lettura organizzato da @cantodellapianura, e oggi -dopo quasi due
mesi- non posso fare a meno di continuare a ringraziarla per avermi fatto
avvicinare ad un’opera così intensa, profonda e folgorante. Sin dalla prima
pagina ho ritrovato nella narrazione di Ismaele una sensibilità che mi ha
lasciata stupefatta e tremante: “Chiamami Ismaele. Alcuni anni fa – lasciamo
perdere precisamente quanti – avendo poco o punto denaro nel borsellino e nulla
in particolare che m’interessasse a terra, pensai di fare vela qua e là per un
po’ e andarmene a vedere la parte acquea del mondo. È un sistema che ho io per
scacciar l’umor nero e regolare la circolazione. Ogni qualvolta che m’accorgo
di star volgendo la bocca al torvo, ogniqualvolta che nell’anima mia umido e
piovigginoso s’instaura novembre, ogniqualvolta che m’accorgo di soffermarmi
involontariamente davanti ai magazzini di bare e di accodarmi a tutti i
funerali che incontro, […] allora stimo sia ormai tempo di mettermi in mare al
più presto possibile”. Cosa mi colpisce di più? Probabilmente la conoscenza
dettagliata da parte di Ismaele della propria anima – infatti, nonostante la
giovane età, mostra una percezione emotiva immensa; in quanti possono dire lo
stesso? Non ignoriamo spesso noi stessi e ci rendiamo conto di stare male
quando è già troppo tardi, ovvero quando abbiamo già in parte riversato inconsciamente
il nostro novembre su chi ci sta vicino?
Così, queste
iniziali poche righe ci introducono nel suo mondo e allo stesso tempo
presagiscono la rotta che verrà intrapresa in queste 641 pagine: ogni parola ci
porterà sempre più vicini al confuso e spesso inesplorato abisso dell’animo
umano. Infatti, alla personalità narrante, sensibile e filosofica di Ismaele,
si affiancheranno ben presto quella più pratica – ma pur sempre saggia – di
Queequeg, quelle meno introspettive ma ilari e crude di Starbuck e Stubb e,
infine, quella selvaggia, tenebrosa ed estremamente acuta di Achab
(naturalmente, ci sono molti altri personaggi, ma sarebbe impossibile
comprenderli tutti). Eppure, il fascino di questo volume risiede anche nei
paesaggi descritti, nei riferimenti storici e nella capacità di Melville di alternare
capitoli in cui sono incluse informazioni scientifiche riguardanti i cetacei,
che colmano il lettore di meraviglia ed incredulità, a capitoli che trasportano
all’interno di una vera e propria opera teatrale. Perciò, prima di indirizzare
il mio pensiero verso Achab, poiché dalle sue scelte dipenderà il destino di
molti, vorrei soffermarmi sul vero protagonista del racconto:
“Ma come?
Genio nel capodoglio? Ha mai il capodoglio scritto un libro, tenuto un
discorso? No, il suo grande genio si dichiara nel suo non far nulla di
particolare per dimostrarlo. Vieppiù si dichiara nel suo piramidale silenzio”.
Ed ecco chi
impareremo a conoscere: l’immenso capodoglio e i suoi simili.
Il capodoglio è il cetaceo più grande munito di denti (non fanoni) e il più ricercato dalle baleniere del mondo del XIX secolo per via della grande quantità di spermaceti - una sostanza cerosa, semiliquida che veniva comunemente usata come combustibile per le lampade a olio e per la fabbricazione di candele - contenuta all’interno della sua noce, ovvero il suo cranio. Si ipotizza che il liquido sia implicato nell’ecolocalizzazione (biosonar) e nella galleggiabilità del cetaceo (prima dell’immersione viene garantito l’accesso di acqua fredda all’interno del compartimento ospitante la sostanza, la diminuzione della temperatura implica una solidificazione dello spermaceti con conseguente modifica del rapporto massa/volume e quindi modifica della densità; questo consentirebbe al capodoglio delle immersioni in profondità senza eccessivo sforzo muscolare). Eppure, il capodoglio è molto di più: è una creatura estremamente sensibile e intelligente che mostra un’eleganza impareggiabile sia grazie ai suoi movimenti sinuosi che grazie al suo tipico sfiato (nei capodogli lo sfiatatoio - l'organo respiratorio dei cetacei con funzione simile alle narici animali da cui prende origine – è unico e non doppio a differenza dei suoi simili). In un passo, attraverso Achab, Melville ci comunica la grandezza di questo essere:
“Era una
testa nera e incappucciata; e appesa com’era in mezzo a quella bonaccia così intensa
pareva la Sfinge nel deserto. “Parla, immensa e veneranda testa,” bisbigliò
Achab, “tu che, sebbene sguarnita di barba, pure qua e là ti mostri canuta di
muschi, parla poderosa testa, e dicci il segreto che è in te. Di tutti i
tuffatori, tu ti sei tuffata più a fondo. Questa testa su cui adesso brilla
alto il sole, s’è mossa tra le fondamenta del mondo. Dove immemori nomi e
flotte arrugginiscono, e taciute speranze a ancore marciscono; […] Oh testa! Tu
hai visto abbastanza da schiantare i pianeti e far d’Abramo un miscredente, e
non sei capace d’una sola sillaba!””.
Così, nel complesso, le descrizioni che Melville elabora non lasciano l’animo del lettore indifferente. Eccone un’altra, in questo caso sulla Balena Giusta:
“Altri
poeti hanno gorgheggiato le lodi del tenero occhio dell’antilope e del
leggiadro piumaggio dell’uccello che mai si posa; meno etero, io celebro una
coda. […] Il corpo compatto e rotondo della sua radice s’estende in due ampie,
solide, piatte palme ovvero patte, che gradualmente s’assottigliano fino a meno
d’un pollice di spessore. All’inforcatura ovvero congiunzione, queste patte
leggermente si sovrappongono per poi divergere obliquamente l’una dall’altra
come ali, lasciando nel mezzo un vasto spazio vuoto. In nessuna creatura
vivente le linee della bellezza sono più squisitamente definite che negl’orli a
mezzaluna di queste patte”.
I toni cambiano
e diventano più intensi, duri e tenebrosi quando si parla di Moby Dick:
mostruosamente bianco, con la mandibola storta e con occhi che sono in grado di
comunicare odio e, inoltre, “congiuntamente posseduto da tutti gli angeli
che caddero dal cielo”. Moby Dick non è un capodoglio, è la reincarnazione
della parte più indifferente, selvaggia e violenta della natura -matrigna- e
questo ci viene comunicato in ogni parola pronunciata da Achab sul suo conto. Ben
presto, infatti, l’ossessione di Achab renderà impossibile parlare dell’uno
senza citare l’altro. In uno dei pezzi più belli e chiarificanti dell’opera, viene
chiarito uno dei dubbi principali del lettore: perché Achab attribuisce al
capodoglio sentimenti umani? È davvero così irragionevole?
““Vendetta
su una muta bestia!” gridò Starbuck, “Che semplicemente vi colpì per il più
cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato con una creatura muta, capitan
Achab, mi sembra blasfemo.”
“Ascolta
ancora una volta lo strato più fondo. Tutti gli oggetti visibili, amico, non
sono che maschere di cartapesta. Ma in ogni evento – nell’atto vivente,
nell’azione indubbia - lì, qualcosa di sconosciuto ma tuttavia raziocinante fa
spuntare la sagoma delle sue fattezze da sotto la maschera irrazionale. Se
l’uomo vuol colpire, colpisca trapassando la maschera! Come può evadere il
prigioniero se non aprendosi un varco attraverso il muro? Per me, la balena
bianca è quel muro, ficcatomi contro. Talvolta penso che al di là non ci sia
nulla. Ma mi basta. Mi occupa; mi colma; io vedo in lei un’atroce potenza
invigorita dal nerbo d’un imperscrutabile malanimo. Questa cosa imperscrutabile
è ciò che odio di più; e sia la balena bianca l’agente o sia la balena bianca
il mandante, io sfogherò su di lei quell’odio. […]””.
Cosa comunicano queste parole? Achab è più profondo e intelligente di quanto si pensi e capisce la necessità umana di avere uno scopo, di avere un capro espiatorio. Chi, dopo un’esperienza traumatica, non proverebbe a sconfiggere il senso di impotenza, di insignificanza e di fragilità attraverso l’ira? In questi casi, non si ha il diritto di odiare per poter cercare di guarire? Il rapporto tra i due è più complesso di quanto si possa pensare, l’odio è solo il primo strato, in profondità si cela un’enorme consapevolezza e un’aspra e inclemente visione del mondo. Achab fa riflettere sul bisogno umano di avere un nemico, ma non solo. Vi invito a leggerlo e a ritrovarvi in lui.
(foto mia) |
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