martedì 6 ottobre 2020

Moby Dick

 “Alla base dell’albero maestro, esattamente sotto al doblone e alla fiamma, il Parsi s’era inginocchiato di fronte ad Achab, ma tenendo stornato il capo chino; […]

“Sì, sì, marinai!” gridò Achab. “Guardatela là, badateci bene: la fiamma bianca non fa che illuminarci la via per la Balena Bianca! […] Oh! Tu limpido spirito di limpido fuoco, che su questi mari io un tempo adorai come un persiano, finché nell’atto sacramentale tanto mi bruciasti da portarne tuttora sfregio, adesso ti conosco, limpido spirito, e adesso so che la sfida è il giusto modo d’adorarti. Né amandoti né riverendoti sarai benevolo, e anche odiandoti tu non puoi che uccidere; e tutti uccidi. Non è uno sciocco impavido colui che ora t’affronta. Io riconosco il tuo indicibile, insituabile potere; ma fino all’ultimo rantolo della mia tellurica vita io contrasterò il suo incondizionato, incompleto dominio su di me. Nel mezzo dell’impersonale personificato, qui sta una personalità. Sebbene al più soltanto un punto, da qualsiasi luogo provenga, in qualsiasi luogo vada, nondimeno, nel mio viver terreno, la regale personalità vive in me e si rende conto dei suoi regi diritti. […] Tu puoi accecare; però io posso procedere a tentoni. Tu puoi consumare; però io posso essere cenere […]” ”.

Moby Dick, Herman Melville


Edito Feltrinelli

Costo 12

 

Mi sono avvicinata a questo intramontabile classico quasi per caso, partecipando al gruppo di lettura organizzato da @cantodellapianura, e oggi -dopo quasi due mesi- non posso fare a meno di continuare a ringraziarla per avermi fatto avvicinare ad un’opera così intensa, profonda e folgorante. Sin dalla prima pagina ho ritrovato nella narrazione di Ismaele una sensibilità che mi ha lasciata stupefatta e tremante: “Chiamami Ismaele. Alcuni anni fa – lasciamo perdere precisamente quanti – avendo poco o punto denaro nel borsellino e nulla in particolare che m’interessasse a terra, pensai di fare vela qua e là per un po’ e andarmene a vedere la parte acquea del mondo. È un sistema che ho io per scacciar l’umor nero e regolare la circolazione. Ogni qualvolta che m’accorgo di star volgendo la bocca al torvo, ogniqualvolta che nell’anima mia umido e piovigginoso s’instaura novembre, ogniqualvolta che m’accorgo di soffermarmi involontariamente davanti ai magazzini di bare e di accodarmi a tutti i funerali che incontro, […] allora stimo sia ormai tempo di mettermi in mare al più presto possibile”. Cosa mi colpisce di più? Probabilmente la conoscenza dettagliata da parte di Ismaele della propria anima – infatti, nonostante la giovane età, mostra una percezione emotiva immensa; in quanti possono dire lo stesso? Non ignoriamo spesso noi stessi e ci rendiamo conto di stare male quando è già troppo tardi, ovvero quando abbiamo già in parte riversato inconsciamente il nostro novembre su chi ci sta vicino?

Così, queste iniziali poche righe ci introducono nel suo mondo e allo stesso tempo presagiscono la rotta che verrà intrapresa in queste 641 pagine: ogni parola ci porterà sempre più vicini al confuso e spesso inesplorato abisso dell’animo umano. Infatti, alla personalità narrante, sensibile e filosofica di Ismaele, si affiancheranno ben presto quella più pratica – ma pur sempre saggia – di Queequeg, quelle meno introspettive ma ilari e crude di Starbuck e Stubb e, infine, quella selvaggia, tenebrosa ed estremamente acuta di Achab (naturalmente, ci sono molti altri personaggi, ma sarebbe impossibile comprenderli tutti). Eppure, il fascino di questo volume risiede anche nei paesaggi descritti, nei riferimenti storici e nella capacità di Melville di alternare capitoli in cui sono incluse informazioni scientifiche riguardanti i cetacei, che colmano il lettore di meraviglia ed incredulità, a capitoli che trasportano all’interno di una vera e propria opera teatrale. Perciò, prima di indirizzare il mio pensiero verso Achab, poiché dalle sue scelte dipenderà il destino di molti, vorrei soffermarmi sul vero protagonista del racconto:

Ma come? Genio nel capodoglio? Ha mai il capodoglio scritto un libro, tenuto un discorso? No, il suo grande genio si dichiara nel suo non far nulla di particolare per dimostrarlo. Vieppiù si dichiara nel suo piramidale silenzio”.

Ed ecco chi impareremo a conoscere: l’immenso capodoglio e i suoi simili.

Il capodoglio è il cetaceo più grande munito di denti (non fanoni) e il più ricercato dalle baleniere del mondo del XIX secolo per via della grande quantità di spermaceti - una sostanza cerosa, semiliquida che veniva comunemente usata come combustibile per le lampade a olio e per la fabbricazione di candele - contenuta all’interno della sua noce, ovvero il suo cranio. Si ipotizza che il liquido sia implicato nell’ecolocalizzazione (biosonar) e nella galleggiabilità del cetaceo (prima dell’immersione viene garantito l’accesso di acqua fredda all’interno del compartimento ospitante la sostanza, la diminuzione della temperatura implica una solidificazione dello spermaceti con conseguente modifica del rapporto massa/volume e quindi modifica della densità; questo consentirebbe al capodoglio delle immersioni in profondità senza eccessivo sforzo muscolare). Eppure, il capodoglio è molto di più: è una creatura estremamente sensibile e intelligente che mostra un’eleganza impareggiabile sia grazie ai suoi movimenti sinuosi che grazie al suo tipico sfiato (nei capodogli lo sfiatatoio - l'organo respiratorio dei cetacei con funzione simile alle narici animali da cui prende origine – è unico e non doppio a differenza dei suoi simili). In un passo, attraverso Achab, Melville ci comunica la grandezza di questo essere:

“Era una testa nera e incappucciata; e appesa com’era in mezzo a quella bonaccia così intensa pareva la Sfinge nel deserto. “Parla, immensa e veneranda testa,” bisbigliò Achab, “tu che, sebbene sguarnita di barba, pure qua e là ti mostri canuta di muschi, parla poderosa testa, e dicci il segreto che è in te. Di tutti i tuffatori, tu ti sei tuffata più a fondo. Questa testa su cui adesso brilla alto il sole, s’è mossa tra le fondamenta del mondo. Dove immemori nomi e flotte arrugginiscono, e taciute speranze a ancore marciscono; […] Oh testa! Tu hai visto abbastanza da schiantare i pianeti e far d’Abramo un miscredente, e non sei capace d’una sola sillaba!””.

Così, nel complesso, le descrizioni che Melville elabora non lasciano l’animo del lettore indifferente. Eccone un’altra, in questo caso sulla Balena Giusta: 

Altri poeti hanno gorgheggiato le lodi del tenero occhio dell’antilope e del leggiadro piumaggio dell’uccello che mai si posa; meno etero, io celebro una coda. […] Il corpo compatto e rotondo della sua radice s’estende in due ampie, solide, piatte palme ovvero patte, che gradualmente s’assottigliano fino a meno d’un pollice di spessore. All’inforcatura ovvero congiunzione, queste patte leggermente si sovrappongono per poi divergere obliquamente l’una dall’altra come ali, lasciando nel mezzo un vasto spazio vuoto. In nessuna creatura vivente le linee della bellezza sono più squisitamente definite che negl’orli a mezzaluna di queste patte”.

I toni cambiano e diventano più intensi, duri e tenebrosi quando si parla di Moby Dick: mostruosamente bianco, con la mandibola storta e con occhi che sono in grado di comunicare odio e, inoltre, “congiuntamente posseduto da tutti gli angeli che caddero dal cielo”. Moby Dick non è un capodoglio, è la reincarnazione della parte più indifferente, selvaggia e violenta della natura -matrigna- e questo ci viene comunicato in ogni parola pronunciata da Achab sul suo conto. Ben presto, infatti, l’ossessione di Achab renderà impossibile parlare dell’uno senza citare l’altro. In uno dei pezzi più belli e chiarificanti dell’opera, viene chiarito uno dei dubbi principali del lettore: perché Achab attribuisce al capodoglio sentimenti umani? È davvero così irragionevole?

““Vendetta su una muta bestia!” gridò Starbuck, “Che semplicemente vi colpì per il più cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato con una creatura muta, capitan Achab, mi sembra blasfemo.”

“Ascolta ancora una volta lo strato più fondo. Tutti gli oggetti visibili, amico, non sono che maschere di cartapesta. Ma in ogni evento – nell’atto vivente, nell’azione indubbia - lì, qualcosa di sconosciuto ma tuttavia raziocinante fa spuntare la sagoma delle sue fattezze da sotto la maschera irrazionale. Se l’uomo vuol colpire, colpisca trapassando la maschera! Come può evadere il prigioniero se non aprendosi un varco attraverso il muro? Per me, la balena bianca è quel muro, ficcatomi contro. Talvolta penso che al di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Mi occupa; mi colma; io vedo in lei un’atroce potenza invigorita dal nerbo d’un imperscrutabile malanimo. Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio di più; e sia la balena bianca l’agente o sia la balena bianca il mandante, io sfogherò su di lei quell’odio. […]””.

Cosa comunicano queste parole? Achab è più profondo e intelligente di quanto si pensi e capisce la necessità umana di avere uno scopo, di avere un capro espiatorio. Chi, dopo un’esperienza traumatica, non proverebbe a sconfiggere il senso di impotenza, di insignificanza e di fragilità attraverso l’ira? In questi casi, non si ha il diritto di odiare per poter cercare di guarire? Il rapporto tra i due è più complesso di quanto si possa pensare, l’odio è solo il primo strato, in profondità si cela un’enorme consapevolezza e un’aspra e inclemente visione del mondo. Achab fa riflettere sul bisogno umano di avere un nemico, ma non solo. Vi invito a leggerlo e a ritrovarvi in lui.



(foto mia)




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