domenica 13 dicembre 2020

Il popolo degli alberi

“ “Molti anni fa, molti, moltissimi anni prima dell’era dell’uomo, c’era una grande pietra, un dio, di nome Ivu’ivu, che regnava incontrastato su un vasto regno d’acqua. Era molto potente, questo dio, e il suo dominio comprendeva ogni cosa sotto la superficie del mare: il suo era un regno di squali che sbattevano la coda e mostravano i denti, di giganti balene cieche e di branchi di pesci e campi danzanti di alghe che accarezzavano il fondo come capelli di ninfe.

“Ma Ivu’ivu si sentiva solo. Tutto intorno vedeva accoppiarsi le bestie: si univano e si riproducevano e gli nuotavano accanto, seguite dalla scia dei loro piccoli. Anche i più solitari dei suoi sudditi – i paguri nei loro gusci spiraliformi e maculati e le stelle marine che strisciavano coperte di spine – erano circondati di figli. Essendo un dio, Ivu’ivu non era preoccupato di morire, ma pensava che gli sarebbe piaciuto avere qualcuno per compagnia, qualcuno con cui condividere il fardello e le difficoltà di essere dio e re, con cui poter far nascere una sua razza di bambini. Ma a questo scopo gli sarebbe servito un altro dio, suo pari.

“Ivu’ivu aveva un caro amico, una tartaruga che si chiamava Opa’ivu’eke: era vecchio quasi quanto lui e, siccome poteva vivere sia nell’acqua che fuori, aveva viaggiato in lungo e in largo e aveva raccolto tante storie meravigliose su luoghi che Ivu’ivu non aveva mai visto. […]

“Un giorno Opa’ivu’eke stava raccontando a Ivu’ivu i suoi viaggi più recenti, e il dio sospirò. ‘Cosa c’è che non va, amico mio?’ chiese Opa’ivu’eke.

“ ‘Ah, amico caro,’ rispose Ivu’ivu, ‘mi sento solo. Tutto intorno a me vedo felicità, animali che si tengono compagnia. Anch’io voglio un compagno, e dei figli. Ma mi serve un altro dio, e in questo mondo può esserci un solo regnante.’

“La tartaruga rimase in silenzio per un pezzo. Poi disse addio al suo amico e nuotò via.

“Tempo dopo la tartaruga fece ritorno, di nuovo con notizie strabilianti, ma stavolta erano ancora più strabilianti di quanto il dio potesse sperare. Nel suo viaggio più recente fuori dall’acqua, Opa’ivu’eke aveva parlato a un suo amico, A’aka, il dio del sole, e gli aveva spiegato il desiderio di Ivu’ivu. A’aka rispose che avrebbe conosciuto con piacere questo potentissimo dio dell’acqua di cui aveva tanto sentito parlare. Fu così che cominciò la storia d’amore tra il dio dell’acqua e il dio del sole, con la tartaruga a fare da messaggera. […]

Opa’ivu’eke non era un dio, naturalmente, ma era, ed è, sempre onorato non solo dai suoi due amici, ma da tutti i discendenti dei suoi amici […]. È per questo motivo che quando un uomo ha la fortuna di trovare un’opa’ivu’eke, deve fare un sacrificio agli dèi e mangiare la sua carne. Farlo significa mandare un messaggio agli dèi, una preghiera di ricevere la cosa che A’aka aveva negato – con l’approvazione di Ivu’ivu - ai suoi nipoti: l’immortalità. E forse un giorno gli dèi sapranno rispondergli.” ”

Il popolo degli alberi, Hanya Yanagihara

 

Edito Feltrinelli

Costo 18

 

Non so bene con quali parole introdurre quest’opera così intensa, potente e, per certi versi, intricata (perché le questioni affrontate sono tutt’altro che banali), quello che so per certo è che è riuscita a stimolarmi, a farmi affezionare ad un posto inesistente (ma, alla fine, chi può dirlo?) e alla vita umana nella sua semplicità e arcaicità. Così, quando ripenso a questo romanzo, non posso fare a meno di commuovermi per tanti motivi e ragioni diverse. In particolare, nel mio cuore un posto profondamente speciale è ora occupato da Ivu’ivu, così descritta nelle prime pagine da Ronald Kubodera – collega e amico di Norton Perina: “Lì è tutto più grande e puro e stupefacente di quanto non si possa immaginare, e in ogni direzione si apre una vista più spettacolare dell’altra: da un lato, una distesa infinita d’acqua, tanto immobile e intensamente colorata che non la si può guardare troppo a lungo; dall’altro, le falde lunghe e profonde della montagna, i picchi che scompaiono nella spuma della nebbia”. Ivu’ivu non è solo un’isola micronesiana: è un posto magico, dove i pochi esseri umani che vi abitano vivono in simbiosi con un’infinità di altri organismi ospitati nelle fitte ed umide foreste. Ogni volta che ripenso a Norton, il protagonista umano del romanzo, realizzo quanta fortuna abbiano avuto gli esploratori che, come lui, nei secoli passati hanno potuto apprezzare e ammirare il perfetto equilibrio tra le varie specie. Le vicende che lo hanno coinvolto (ovvero la scoperta che l’ingestione della carne di una particolare specie di tartaruga -l’opa’ivu’eke appunto- possa rendere ‘immortali’), mi ricordano l’immenso ed inconsapevole potere della natura: quanti elisir d’immortalità o altre sostanze estremamente utili abbiamo perso o perderemo con la distruzione di interi ecosistemi?

Eppure, al sentimento di invidia, nei confronti di coloro che hanno potuto godere della vista di un mondo incontaminato (se così vogliamo definirlo), si affianca ben presto un sentimento di commiserazione per gli stessi: quali decisioni etiche hanno dovuto prendere? Cos’è più importante: la spinta verso la ricerca e la scoperta o salvaguardia dell’ecosistema?

Non negherò – sulle prime – di essermi rammaricata ed irritata per le decisioni prese da Norton, ritenendolo l’unico responsabile dei nefasti cambiamenti cui andranno incontro Ivu’ivu e i sognatori (coloro affetti dalla malattia di Selene - così chiamata nel libro, una patologia che colpisce coloro che assumono l'opa'ivu'eke: non invecchiano ma vanno incontro ad una degenerazione di alcune aree dell'encefalo); ma, dopo un’attenta riflessione, mi sono ritrovata a perdonarlo. Lo perdono perché, se mi fossi trovata nella sua stessa situazione, ovvero ad un passo dall’infondere stabilità al mio futuro, avrei probabilmente preso le sue stesse decisioni; il perdono, però, non cancella il dolore che si prova davanti allo scempio che è stato commesso, non solo dal punto di vista ecologico, ma soprattutto etico. Non smetterò mai di ripensare con le lacrime agli occhi ai sognatori e alle opa’ivu’eke, a quanto fossero indifesi ed innocenti.

Infatti, oltre ad essere un romanzo in cui la questione ecologica è in primo piano, è anche un’opera che fa riflettere dal punto di vista morale; basti pensare che le vicende narrate si ispirano alla storia del virologo statunitense Daniel Carleton Gajdusek: questi, dopo aver vinto il premio Nobel per la medicina nel 1976 – grazie alle sue ricerche sul kuru, malattia prionica ed endemica della Nuova Guinea, venne accusato (e condannato) di molestie da parte di diversi bambini affidati alle sue cure.

In conclusione, è un libro complesso, emozionante, elaborato con maestria (l’unica pecca è la traduzione, sono presenti frequenti refusi) e in cui è presente un perfetto mix tra scienza, etica, ecologia, morale e fantasia. Lo consiglio con tutto il cuore, ma attenzione a maneggiarlo con cura.



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