“ “Molti anni fa, molti, moltissimi anni prima dell’era dell’uomo, c’era una grande pietra, un dio, di nome Ivu’ivu, che regnava incontrastato su un vasto regno d’acqua. Era molto potente, questo dio, e il suo dominio comprendeva ogni cosa sotto la superficie del mare: il suo era un regno di squali che sbattevano la coda e mostravano i denti, di giganti balene cieche e di branchi di pesci e campi danzanti di alghe che accarezzavano il fondo come capelli di ninfe.
“Ma Ivu’ivu
si sentiva solo. Tutto intorno vedeva accoppiarsi le bestie: si univano e si
riproducevano e gli nuotavano accanto, seguite dalla scia dei loro piccoli.
Anche i più solitari dei suoi sudditi – i paguri nei loro gusci spiraliformi e
maculati e le stelle marine che strisciavano coperte di spine – erano
circondati di figli. Essendo un dio, Ivu’ivu non era preoccupato di morire, ma
pensava che gli sarebbe piaciuto avere qualcuno per compagnia, qualcuno con cui
condividere il fardello e le difficoltà di essere dio e re, con cui poter far
nascere una sua razza di bambini. Ma a questo scopo gli sarebbe servito un
altro dio, suo pari.
“Ivu’ivu
aveva un caro amico, una tartaruga che si chiamava Opa’ivu’eke: era vecchio
quasi quanto lui e, siccome poteva vivere sia nell’acqua che fuori, aveva viaggiato
in lungo e in largo e aveva raccolto tante storie meravigliose su luoghi che
Ivu’ivu non aveva mai visto. […]
“Un giorno
Opa’ivu’eke stava raccontando a Ivu’ivu i suoi viaggi più recenti, e il dio
sospirò. ‘Cosa c’è che non va, amico mio?’ chiese Opa’ivu’eke.
“ ‘Ah, amico
caro,’ rispose Ivu’ivu, ‘mi sento solo. Tutto intorno a me vedo felicità,
animali che si tengono compagnia. Anch’io voglio un compagno, e dei figli. Ma
mi serve un altro dio, e in questo mondo può esserci un solo regnante.’
“La tartaruga
rimase in silenzio per un pezzo. Poi disse addio al suo amico e nuotò via.
“Tempo dopo
la tartaruga fece ritorno, di nuovo con notizie strabilianti, ma stavolta erano
ancora più strabilianti di quanto il dio potesse sperare. Nel suo viaggio più
recente fuori dall’acqua, Opa’ivu’eke aveva parlato a un suo amico, A’aka, il
dio del sole, e gli aveva spiegato il desiderio di Ivu’ivu. A’aka rispose che
avrebbe conosciuto con piacere questo potentissimo dio dell’acqua di cui aveva
tanto sentito parlare. Fu così che cominciò la storia d’amore tra il dio
dell’acqua e il dio del sole, con la tartaruga a fare da messaggera. […]
Opa’ivu’eke
non era un dio, naturalmente, ma era, ed è, sempre onorato non solo dai suoi
due amici, ma da tutti i discendenti dei suoi amici […]. È per questo motivo
che quando un uomo ha la fortuna di trovare un’opa’ivu’eke, deve fare un
sacrificio agli dèi e mangiare la sua carne. Farlo significa mandare un
messaggio agli dèi, una preghiera di ricevere la cosa che A’aka aveva negato –
con l’approvazione di Ivu’ivu - ai suoi nipoti: l’immortalità. E forse un
giorno gli dèi sapranno rispondergli.” ”
Il popolo
degli alberi, Hanya Yanagihara
Edito
Feltrinelli
Costo 18€
Non so bene
con quali parole introdurre quest’opera così intensa, potente e, per certi
versi, intricata (perché le questioni affrontate sono tutt’altro che banali),
quello che so per certo è che è riuscita a stimolarmi, a farmi affezionare ad
un posto inesistente (ma, alla fine, chi può dirlo?) e alla vita umana nella
sua semplicità e arcaicità. Così, quando ripenso a questo romanzo, non posso
fare a meno di commuovermi per tanti motivi e ragioni diverse. In particolare,
nel mio cuore un posto profondamente speciale è ora occupato da Ivu’ivu, così
descritta nelle prime pagine da Ronald Kubodera – collega e amico di Norton
Perina: “Lì è tutto più grande e puro e stupefacente di quanto non si possa
immaginare, e in ogni direzione si apre una vista più spettacolare dell’altra:
da un lato, una distesa infinita d’acqua, tanto immobile e intensamente colorata
che non la si può guardare troppo a lungo; dall’altro, le falde lunghe e
profonde della montagna, i picchi che scompaiono nella spuma della nebbia”.
Ivu’ivu non è solo un’isola micronesiana: è un posto magico, dove i pochi
esseri umani che vi abitano vivono in simbiosi con un’infinità di altri
organismi ospitati nelle fitte ed umide foreste. Ogni volta che ripenso a
Norton, il protagonista umano del romanzo, realizzo quanta fortuna abbiano
avuto gli esploratori che, come lui, nei secoli passati hanno potuto apprezzare
e ammirare il perfetto equilibrio tra le varie specie. Le vicende che lo hanno
coinvolto (ovvero la scoperta che l’ingestione della carne di una particolare
specie di tartaruga -l’opa’ivu’eke appunto- possa rendere ‘immortali’), mi ricordano
l’immenso ed inconsapevole potere della natura: quanti elisir d’immortalità o
altre sostanze estremamente utili abbiamo perso o perderemo con la distruzione di
interi ecosistemi?
Eppure, al
sentimento di invidia, nei confronti di coloro che hanno potuto godere della vista
di un mondo incontaminato (se così vogliamo definirlo), si affianca ben presto
un sentimento di commiserazione per gli stessi: quali decisioni etiche hanno
dovuto prendere? Cos’è più importante: la spinta verso la ricerca e la scoperta
o salvaguardia dell’ecosistema?
Non negherò – sulle prime – di essermi rammaricata ed irritata per le decisioni prese da Norton, ritenendolo l’unico responsabile dei nefasti cambiamenti cui andranno incontro Ivu’ivu e i sognatori (coloro affetti dalla malattia di Selene - così chiamata nel libro, una patologia che colpisce coloro che assumono l'opa'ivu'eke: non invecchiano ma vanno incontro ad una degenerazione di alcune aree dell'encefalo); ma, dopo un’attenta riflessione, mi sono ritrovata a perdonarlo. Lo perdono perché, se mi fossi trovata nella sua stessa situazione, ovvero ad un passo dall’infondere stabilità al mio futuro, avrei probabilmente preso le sue stesse decisioni; il perdono, però, non cancella il dolore che si prova davanti allo scempio che è stato commesso, non solo dal punto di vista ecologico, ma soprattutto etico. Non smetterò mai di ripensare con le lacrime agli occhi ai sognatori e alle opa’ivu’eke, a quanto fossero indifesi ed innocenti.
Infatti,
oltre ad essere un romanzo in cui la questione ecologica è in primo piano, è
anche un’opera che fa riflettere dal punto di vista morale; basti pensare che le
vicende narrate si ispirano alla storia del virologo statunitense Daniel
Carleton Gajdusek: questi, dopo aver vinto il premio Nobel per la medicina nel
1976 – grazie alle sue ricerche sul kuru, malattia prionica ed endemica della
Nuova Guinea, venne accusato (e condannato) di molestie da parte di diversi
bambini affidati alle sue cure.
In
conclusione, è un libro complesso, emozionante, elaborato con maestria (l’unica
pecca è la traduzione, sono presenti frequenti refusi) e in cui è presente un
perfetto mix tra scienza, etica, ecologia, morale e fantasia. Lo consiglio con
tutto il cuore, ma attenzione a maneggiarlo con cura.
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