martedì 23 marzo 2021

Il serpente

 “Pensa com’è quando fa giorno dopo una breve notte d’estate. Qualcuno immerge la scopa nell’acido cloridrico e spazza via le stelle dalla volta del cielo, lucida e tesa come un elmetto. Qualcuno lancia nello spazio piccole gocce di inchiostro rosso, che si spargono come se lassù si imbattessero in un foglio di carta assorbente. E viene la luce, ed è come se la notte si liberasse di uno strato di ragnatele: ragnatele spesse e nere che è facile afferrare, mentre quelle grigie e sottili sono ancora ostinatamente sospese sopra la terra, ed è per questo che chi cammina nel bosco, da nord a sud, crede che sia ancora notte finché non vede luccicare l’erica davanti a sé. Accade così all’improvviso, così in fretta che forse, sulle prime, pensa che sia lo svolazzare di una farfalla dalle ali gialle, lì nella radura, e magari si mette a correre nell’erica bagnata per catturarla. Poi però si accorge dell’errore e, quando si volta, il cielo dietro di lui, dal limitare del bosco fin su in alto per chilometri e chilometri, arde di un rosso così intenso da far temere che possa crollare per il calore. E invece fa freddo, è l’ora più fredda del giorno e anche il momento più limpido, quando le ultime ragnatele della notte vengono spazzate via dalle scope d’acciaio del mattino.”

Il serpente, Stig Dagerman

 

Edito Iperborea

Costo 18

 

Il serpente attraversa lentamente queste 297 pagine, esponendo le sue squame alla luce calda, rovente e asfissiante del sole che si abbatte su un campo d’addestramento militare in Svezia. La sua visione lascia un segno indelebile sugli animi dei presenti, portandoli ad abbandonare gran parte dei costrutti sociali più disparati e ad accogliere l’istinto, la pancia e l’emotività: “[…] lei si sentì messa a nudo di fronte a se stessa, […], lasciò che tutte le sensazioni che la sopraffacevano si prendessero cura di lei e la guidassero a quella sottilissima linea di confine dove i prati della ragione e del pensiero si mutavano nella palude dei sentimenti, e oltrepassando quel confine provò un piccolo, folle senso di trionfo e pensò: «Me ne infischio.»”. Come posso descrivere, senza incorrere in errore, il senso di abbandono con cui questi personaggi provano a sconfiggere il senso di alienazione e mancanza che la vita li ha costretti ad ingoiare? Come posso descrivere, senza incorrere in errore, la strana ma piacevole architettura dell’opera? Come spiegare, soprattutto da ciò che emerge nel primo racconto, l’umanità smascherata nella sua bestialità e nella sua costante lotta tra ragione ed istinto? Qui c’è tutto e molto di più: c’è la paura di un essere strisciante (ma sarà davvero il serpente?), il senso di liberazione che si prova allontanando chi ci disprezza, il sentirsi inadeguati, il sentirsi delle macchine e nient’altro e, soprattutto, il terrore di doversi guardare allo specchio senza salvagente o altro aiuto.

In quest’opera Dagerman ci costringe a chiederci quanto sarebbe semplice essere delle macchine, convincendoci, però, ad amare la nostra essenza umana: a quanti mancherebbe osservare il cielo e ritrovare in esso i nostri più intimi pensieri?

Buona lettura.



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