mercoledì 23 dicembre 2020

Canto di Natale

“Oh, se era un osso duro, Scrooge! Un vecchio peccatore ferace, rapace, vorace, tenace, pugnace ed esigente! Duro affilato come una pietra focaia dalla quale nessun acciaio aveva mai scoccato una scintilla di generosità; chiuso e sigillato e solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva dentro gli congelava il volto vecchio, gli strizzava il naso puntuto, gli avvizziva le guance, gli irrigidiva il passo; gli faceva gli occhi rossi, le labbra sottili blu; e parlava scaltro nella sua voce graffiante. Aveva un orlo di brina sulla testa, sulle sopracciglia e sul mento aguzzo. Portava sempre con sé la sua bassa temperatura; nei giorni della canicola gli ghiacciava l’ufficio; e a Natale non lo scaldava di un grado in più. Il caldo e il freddo là fuori avevano scarsi effetti su Scrooge. Nessun tepore lo poteva scaldare, nessun gelo invernale poteva raffreddarlo. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che scendesse dal cielo più ostinata, non c’era pioggia battente meno disposta ad ascoltare suppliche. Il maltempo non sapeva come comportarsi con lui. La pioggia, la neve, la grandine e il nevischio più fitti potevano vantare di batterlo solo in un senso, ovvero che loro spesso cadevano abbandonati, Scrooge mai.”

 

Canto di Natale, Charles Dickens (tradotto da Beatrice Masini ed illustrato da Iacopo Bruno)

 

Edito Rizzoli

Costo 20

 

Il Natale, sebbene mantenga sempre il medesimo posto sul calendario, non è mai uguale a se stesso. Ci sono anni in cui lo si osserva arrivare di soppiatto ai primi di ottobre, altri in cui arriva improvvisamente verso la fine di novembre e altri ancora in cui, anche se a dicembre inoltrato, si fa fatica a sentirlo e ritrovarlo. Quest’anno, stressante sotto molti punti di vista, è possibile che lo spirito gioioso, che ha assiduamente accompagnato i nostri Natali passati, si perda nello spazio che intercorre tra mille diversi pensieri. Così, benché non esista una regola universalmente riconosciuta, risulta quasi un dovere cercare di stemperare la tristezza o l’angoscia: Canto di Natale, in questa incantevole edizione, si presta benissimo a tale impresa. È, infatti, grazie alla storia elaborata da Dickens, tradotta da Beatrice Masini ed illustrata da Iacopo Bruno che si può riflettere attentamente sul vero significato di tale festa, anche per i non credenti. Questo è davvero il periodo dell’anno in cui, con tutte le nostre forze, dobbiamo cercare di aggrapparci alla serenità e al calore; non solo per coloro che ci circondano, ma soprattutto per noi stessi: per il nostro Io del presente e per il nostro Io del futuro.

Riportando un passo del libro:

“«Natale una sciocchezza, zio?» disse il nipote. «Sono sicuro che non dici sul serio.» «Invece sì» disse Scrooge. «Felice Natale! Che diritto hai di essere felice? Che motivo hai di essere felice? Sei povero» «Su, su» disse allegro il nipote. «Che diritto hai di essere triste? Che motivo hai per essere infelice? Sei ricco.»”

È con il cuore in mano che scrivo di questo volume e cerco di capire cosa più mi abbia commosso, se il dolore vissuto dallo Scrooge bambino o la forza con cui la famiglia Cratchit affronta l’esistenza. In queste 106 pagine c’è molto da cui prendere esempio, anche a 23 o 46 o 69 anni. Vorrei davvero un mondo popolato da tanti Bob Cratchit che si inchinano e amano coloro che più hanno bisogno, proprio come Mini Tim. Inoltre, sono orgogliosa del percorso intrapreso da Scrooge, del suo ammettere l’errore e cercare di rimediare, vincendo così la paura del rifiuto. È proprio in questo che risiede la bellezza dell’opera: tutti noi, per i motivi più disparati (l’animo umano è complesso e alcune volte, stanco del dolore, può scegliere la via dell’apatia e della freddezza), potremmo ritrovarci a rifiutare di donare un gesto gentile, un tocco delicato o un semplice sorriso; ecco che, attraverso Scrooge, possiamo ritrovare la strada maestra, abbandonare l’orgoglio o l’apatia e ritrovare piacere nella condivisione. Canto di Natale è un capolavoro che, grazie all’unione di elementi gotici ad elementi socialmente didattici, può essere letto in qualsiasi momento della nostra vita. In aggiunta, le figure che prendono vita durante la lettura riescono ad incantare anche l’animo più cinico: “«Io sono il Fantasma del Natale Presente» disse lo Spirito. «Guardami!» Scrooge lo fece con grande reverenza. Indossava una semplice tunica, forse un manto verde scuro orlato di pelliccia bianca. La veste gli si posava così sciolta sul corpo che l’ampio petto era scoperto, come se disdegnasse di essere riparato o nascosto. I piedi, che spuntavano sotto le ampie pieghe della veste, erano pure scalzi e sulla testa portava a mo’ di unico copricapo una ghirlanda di agrifoglio punteggiata qua e là da ghiaccioli scintillanti. I ricci scuri erano lunghi e liberi: liberi come il volto allegro, lo sguardo sfavillante, la mano aperta, la voce gioiosa, l’espressione spontanea, e l’aria lieta. Attorno alla vita portava un antico fodero privo di spada, e la vecchia guaina era divorata dalla ruggine.”

È questo lo Spirito che più mi ha colpito: nonostante sia consapevole della brevità della sua esistenza (“Un’altra cosa era strana: mentre Scrooge restava immutato nella sua forma esteriore, il Fantasma diventava più vecchio. Visibilmente più vecchio […] «La vita di uno Spirito è così breve?» chiese. «La mia vita su questa terra è molto breve» rispose il Fantasma. «Finisce stanotte.»”), si mostra comunque vitale, pieno di forza, gioia e amore. In particolar modo, non rifiuta i due Figli dell’uomo che gli si aggrappano con tutte le loro forze: Ignoranza e Bisogno (o Miseria). È davvero impossibile cercare di prolungarne l’esistenza dello Siprito del Natale presente? Non dovremmo forse cercare di serbare tutto l’anno questo calore?

Concludo ringraziando @attimidiprosablog per aver organizzato tutto, la casa editrice Rizzoli per aver concesso la recensione di questo bellissimo volume e i miei compagni @metanfetalibri, @laragazzacalabrese e @underbrushink.

Di seguito i link dei blog:

Attimi di prosa (link per il suo blog: www.attimidiprosa.bolgspot.com)

Appunti di un lettore compulsivo (link per il suo blog: www.appuntidiunlettorecompulsivo.blogspot.com)

La ragazza calabrese (link per il suo blog: www.laragazzacalabrese.blogspot.com)

Underbrushink (link per il suo blog: www.underbrushink.blogspot.com)



domenica 13 dicembre 2020

Il popolo degli alberi

“ “Molti anni fa, molti, moltissimi anni prima dell’era dell’uomo, c’era una grande pietra, un dio, di nome Ivu’ivu, che regnava incontrastato su un vasto regno d’acqua. Era molto potente, questo dio, e il suo dominio comprendeva ogni cosa sotto la superficie del mare: il suo era un regno di squali che sbattevano la coda e mostravano i denti, di giganti balene cieche e di branchi di pesci e campi danzanti di alghe che accarezzavano il fondo come capelli di ninfe.

“Ma Ivu’ivu si sentiva solo. Tutto intorno vedeva accoppiarsi le bestie: si univano e si riproducevano e gli nuotavano accanto, seguite dalla scia dei loro piccoli. Anche i più solitari dei suoi sudditi – i paguri nei loro gusci spiraliformi e maculati e le stelle marine che strisciavano coperte di spine – erano circondati di figli. Essendo un dio, Ivu’ivu non era preoccupato di morire, ma pensava che gli sarebbe piaciuto avere qualcuno per compagnia, qualcuno con cui condividere il fardello e le difficoltà di essere dio e re, con cui poter far nascere una sua razza di bambini. Ma a questo scopo gli sarebbe servito un altro dio, suo pari.

“Ivu’ivu aveva un caro amico, una tartaruga che si chiamava Opa’ivu’eke: era vecchio quasi quanto lui e, siccome poteva vivere sia nell’acqua che fuori, aveva viaggiato in lungo e in largo e aveva raccolto tante storie meravigliose su luoghi che Ivu’ivu non aveva mai visto. […]

“Un giorno Opa’ivu’eke stava raccontando a Ivu’ivu i suoi viaggi più recenti, e il dio sospirò. ‘Cosa c’è che non va, amico mio?’ chiese Opa’ivu’eke.

“ ‘Ah, amico caro,’ rispose Ivu’ivu, ‘mi sento solo. Tutto intorno a me vedo felicità, animali che si tengono compagnia. Anch’io voglio un compagno, e dei figli. Ma mi serve un altro dio, e in questo mondo può esserci un solo regnante.’

“La tartaruga rimase in silenzio per un pezzo. Poi disse addio al suo amico e nuotò via.

“Tempo dopo la tartaruga fece ritorno, di nuovo con notizie strabilianti, ma stavolta erano ancora più strabilianti di quanto il dio potesse sperare. Nel suo viaggio più recente fuori dall’acqua, Opa’ivu’eke aveva parlato a un suo amico, A’aka, il dio del sole, e gli aveva spiegato il desiderio di Ivu’ivu. A’aka rispose che avrebbe conosciuto con piacere questo potentissimo dio dell’acqua di cui aveva tanto sentito parlare. Fu così che cominciò la storia d’amore tra il dio dell’acqua e il dio del sole, con la tartaruga a fare da messaggera. […]

Opa’ivu’eke non era un dio, naturalmente, ma era, ed è, sempre onorato non solo dai suoi due amici, ma da tutti i discendenti dei suoi amici […]. È per questo motivo che quando un uomo ha la fortuna di trovare un’opa’ivu’eke, deve fare un sacrificio agli dèi e mangiare la sua carne. Farlo significa mandare un messaggio agli dèi, una preghiera di ricevere la cosa che A’aka aveva negato – con l’approvazione di Ivu’ivu - ai suoi nipoti: l’immortalità. E forse un giorno gli dèi sapranno rispondergli.” ”

Il popolo degli alberi, Hanya Yanagihara

 

Edito Feltrinelli

Costo 18

 

Non so bene con quali parole introdurre quest’opera così intensa, potente e, per certi versi, intricata (perché le questioni affrontate sono tutt’altro che banali), quello che so per certo è che è riuscita a stimolarmi, a farmi affezionare ad un posto inesistente (ma, alla fine, chi può dirlo?) e alla vita umana nella sua semplicità e arcaicità. Così, quando ripenso a questo romanzo, non posso fare a meno di commuovermi per tanti motivi e ragioni diverse. In particolare, nel mio cuore un posto profondamente speciale è ora occupato da Ivu’ivu, così descritta nelle prime pagine da Ronald Kubodera – collega e amico di Norton Perina: “Lì è tutto più grande e puro e stupefacente di quanto non si possa immaginare, e in ogni direzione si apre una vista più spettacolare dell’altra: da un lato, una distesa infinita d’acqua, tanto immobile e intensamente colorata che non la si può guardare troppo a lungo; dall’altro, le falde lunghe e profonde della montagna, i picchi che scompaiono nella spuma della nebbia”. Ivu’ivu non è solo un’isola micronesiana: è un posto magico, dove i pochi esseri umani che vi abitano vivono in simbiosi con un’infinità di altri organismi ospitati nelle fitte ed umide foreste. Ogni volta che ripenso a Norton, il protagonista umano del romanzo, realizzo quanta fortuna abbiano avuto gli esploratori che, come lui, nei secoli passati hanno potuto apprezzare e ammirare il perfetto equilibrio tra le varie specie. Le vicende che lo hanno coinvolto (ovvero la scoperta che l’ingestione della carne di una particolare specie di tartaruga -l’opa’ivu’eke appunto- possa rendere ‘immortali’), mi ricordano l’immenso ed inconsapevole potere della natura: quanti elisir d’immortalità o altre sostanze estremamente utili abbiamo perso o perderemo con la distruzione di interi ecosistemi?

Eppure, al sentimento di invidia, nei confronti di coloro che hanno potuto godere della vista di un mondo incontaminato (se così vogliamo definirlo), si affianca ben presto un sentimento di commiserazione per gli stessi: quali decisioni etiche hanno dovuto prendere? Cos’è più importante: la spinta verso la ricerca e la scoperta o salvaguardia dell’ecosistema?

Non negherò – sulle prime – di essermi rammaricata ed irritata per le decisioni prese da Norton, ritenendolo l’unico responsabile dei nefasti cambiamenti cui andranno incontro Ivu’ivu e i sognatori (coloro affetti dalla malattia di Selene - così chiamata nel libro, una patologia che colpisce coloro che assumono l'opa'ivu'eke: non invecchiano ma vanno incontro ad una degenerazione di alcune aree dell'encefalo); ma, dopo un’attenta riflessione, mi sono ritrovata a perdonarlo. Lo perdono perché, se mi fossi trovata nella sua stessa situazione, ovvero ad un passo dall’infondere stabilità al mio futuro, avrei probabilmente preso le sue stesse decisioni; il perdono, però, non cancella il dolore che si prova davanti allo scempio che è stato commesso, non solo dal punto di vista ecologico, ma soprattutto etico. Non smetterò mai di ripensare con le lacrime agli occhi ai sognatori e alle opa’ivu’eke, a quanto fossero indifesi ed innocenti.

Infatti, oltre ad essere un romanzo in cui la questione ecologica è in primo piano, è anche un’opera che fa riflettere dal punto di vista morale; basti pensare che le vicende narrate si ispirano alla storia del virologo statunitense Daniel Carleton Gajdusek: questi, dopo aver vinto il premio Nobel per la medicina nel 1976 – grazie alle sue ricerche sul kuru, malattia prionica ed endemica della Nuova Guinea, venne accusato (e condannato) di molestie da parte di diversi bambini affidati alle sue cure.

In conclusione, è un libro complesso, emozionante, elaborato con maestria (l’unica pecca è la traduzione, sono presenti frequenti refusi) e in cui è presente un perfetto mix tra scienza, etica, ecologia, morale e fantasia. Lo consiglio con tutto il cuore, ma attenzione a maneggiarlo con cura.



sabato 12 dicembre 2020

Lettera aperta

 “Quanto tempo sono stata stesa sul letto senza muovermi? Fuori è già quasi buio e prima c’era il sole. Era il sole di ieri, di questa mattina o di un mese fa? So solo che sono stata schiacciata sul letto con le persiane chiuse. Dormivo? Non proprio. Mi lasciavo tirare tra la curiosità di andarmene e quella di ascoltare. È incredibile come non ci sia niente di più invitante che delle voci intese e non intese dietro una porta chiusa. Ma ascoltare significa sapere. Quelle voci però rintronano così forte che ho fatto bene a chiudere la porta. Non voglio sapere di quell’anello. Non voglio sapere a chi era rivolto quel grido. Ho fatto male a cominciare: mi trovo ora con i cassetti aperti traboccanti di lettere, fotografie. Nastri, camicette, libri ammucchiati in mezzo al pavimento: la porta crocefissa dalla scala che il portiere mi ha prestato. Non potrò più uscire. Resterò seppellita fra il divano e la porta. Rimettere tutto dentro alla rinfusa? Buttare tutto, dite? Ci avevo pensato anch’io, ma come fare? […] Non capite? […] No, questo non sarebbe mettere ordine: sarebbe liberarsi ciecamente di tutto solo per fare spazio. E l’alito gelato di un vuoto non equivale forse alle sabbie mobili del disordine? No, mi tocca avere pazienza e continuare a mettere tutto fuori. Non c’è niente da fare: per fare ordine bisogna prima toccare il fondo del disordine”.

Lettera aperta, Goliarda Sapienza

 

Edito Einaudi

Costo 12

 

Non so cosa mi abbia colpito maggiormente di quest’opera, se il coraggio insito nel mettere per iscritto la propria esistenza o la grandissima sensibilità mostrata in ogni pagina, ma nel complesso è riuscita a trasmettermi una forza immensa. Così, la rilettura di questo passo, dopo circa tre settimane dal mio primo approccio con Goliarda Sapienza, mi mette i brividi e mi lascia piena di meraviglia. Il ritratto che viene abbozzato in queste 147 pagine è quello di una donna, un tempo bambina, che ha trovato le energie per mordere la testa “[…] a questo polipo che mi trascinava in quel mare di vecchie emozioni” e cercare di rispedirlo nelle profondità dell’abisso. Ognuno di noi, chi più e chi meno, nella sua esistenza ha dovuto destreggiarsi tra ricordi, pensieri ed emozioni spigolose, spinose o striscianti; quanto è difficile non lasciarsi sopraffare? Quanto è faticoso dover rimettere in ordine le proprie emozioni, o addirittura la propria esistenza, senza tentare di scaricarle nel primo portaoggetti o persona a portata di mano? Ogni volta che rileggo questo passo, provo un’immediata sensazione di benessere: mi sento meno sola e ricordo di dover avere pazienza, di non correre ora per poi dover fare il doppio della fatica domani; ci vuole tempo per capire se stessi e, ancora di più, per capire gli effetti che il mondo esterno ha avuto sulla nostra persona. Non voglio dilungarmi eccessivamente, perché sarebbe difficile esprimere a parole la bellezza di questo romanzo, perciò vi consiglio – soprattutto se avete amato Virginia Woolf o se vi trovate in un periodo particolarmente complesso – di leggerlo e di farvi trasportare nella vita di una figura estremamente affascinante e suggestiva. Ringrazio immensamente Giulia di @thedevilreadseverything per avermi fatto scoprire, con il suo gruppo di lettura, Goliarda Sapienza.



domenica 6 dicembre 2020

Il grande libro dei gialli di Natale

“«L’autentico spirito del Natale» affermò sir Adrian Tremayne, gingillandosi con lo stelo dell’unico bicchierino di porto che gli era concesso «non va ricercato nella golosità e nell’ostentazione che incoraggiava quel ciarlatano e sentimentalista di Charles Dickens.» Guardò con disprezzo gli avanzi della cena che ancora ingombravano la lunga tavolata. «Non certo nel tacchino e nel plum pudding, e tantomeno in mortaretti e regali costosi. No… mille volte no!» Aveva una voce vibrante e, anche se in quel momento era abbassata a un sussurro, capace di catturare l’uditorio così come aveva catturato gli uditori di tutta la nazione. «Lo spirito autentico del Natale sta naturalmente nella riconciliazione.»”

Un infausto Santo Stefano – Robert Barnard, Il grande libro dei gialli di Natale a cura di Otto Penzler

 

Edito Mondadori, OscarVault Draghi

Costo 25€

 

Il grande libro dei gialli di Natale è una raccolta di racconti curata da nientemeno che Otto Penzler, un’importante figura statunitense per ciò che concerne l’editoria della mystery fiction (romanzi/racconti gialli); è, infatti, il proprietario della Mysterious Bookshop, una libreria e casa editrice indipendente sita a New York, che si occupa della pubblicazione in edizioni limitate di importanti opere del genere giallo (tra queste spiccano quelle che vedono come protagonista Sherlock Holmes, Jack Reacher di Lee Child ecc).

Il volume in questione raccoglie racconti creati sia da personaggi di spicco, come Agatha Christie, Thomas Hardy, Arthur Conan Doyle, Isaac Asimov e Robert Louis Stevenson, ma anche ideati da personaggi meno noti – per questo sono importanti le piccole note introduttive che presentano l’autore, i suoi principali scritti e qualche curiosità - che ciononostante risultano in grado di coinvolgere attentamente il lettore e di prepararlo a qualsiasi eventualità ed atmosfera natalizia. Le opere che compongono la raccolta sono in totale sessanta e vengono raggruppate, in base ai temi trattati, in: Un piccolo Natale tradizionale, Un piccolo Natale buffo, Un piccolo Natale sherlockiano, Un piccolo Natale pulp, Un piccolo Natale occulto, Un piccolo Natale spaventoso, Un piccolo Natale moderno, Un piccolo Natale sconcertante e, ultimo ma non per importanza, Un piccolo Natale classico. Come si può evincere dai titoli, il Natale viene narrato e presentato in molteplici modi: ogni inclinazione o gusto può venire così soddisfatto. È forse questo il più grande pregio del volume: la sua versatilità; così, può venire apprezzato sia dagli inguaribili romantici, che aspettano con gioia – rigorosamente dagli inizi di giugno - le letture davanti al focolare, sia dai meno entusiasti che ai regali sotto l’albero preferiscono i cadaveri sotto il vischio (si scherza).

Personalmente, ho goduto appieno le 813 pagine di cui quest’opera è composta e ogni racconto è stato in grado di risvegliare in me quel bisogno di Natale – e quindi di riconciliazione, non solo con l’altro ma anche con noi stessi - che spesso gli eventi esterni ci fanno dimenticare. Naturalmente, ci sono stati degli episodi che ho più amato rispetto ad altri, ma nel complesso ritengo di poter definire eccellente tutta la raccolta.

Nello specifico - in Un piccolo Natale tradizionale – ho apprezzato sia le atmosfere create da Agatha Christie ne Il caso del dolce Natale, che quelle create da Catherine Aird in Oro, Incenso e Morte: sono rimasta estasiata dalla perfetta commistione di suspence e importanti riflessioni circa i profughi, i pregiudizi che quest’ultimi devono affrontare anche nei giorni di festa e la malinconia che può scaturire dal ricordo di festività passate. In aggiunta, sono rimasta colpita dall’enorme collezione di bambole in possesso della simpaticissima protagonista di L’avventura della bambola del Delfino, a dimostrazione di quanto sia importante avere qualcosa che simboleggi l’amore dei nostri genitori e di quanto questa pratica abbia radici antichissime:

Le bambole della signorina Ypson avevano una loro poesia. […] Eccola avventurarsi nella terra dei faraoni per due pezzi di tavoletta di legno essiccato, intagliati e dipinti e dotati di capelli fatti di perline infilate, e senza gambe (in modo che non scappassero) […]”

Al contrario in Più carne che sangue veniamo trascinati in una storia cupa e quasi agghiacciante, dove alla narrazione ammaliante si accosta la consapevolezza che non tutti i nuclei familiari sono in grado di concedere una tregua. Eppure, ritorna il sorriso non appena, o quasi, affrontiamo la lettura di Il gatto Trinity: chi avrebbe mai immaginato che il legame uomo-gatto potesse risultare decisivo per la risoluzione delle indagini?

Successivamente, in Un piccolo Natale buffo, ritroviamo racconti leggeri e simpatici; oltre alla meravigliosa penna di Thomas Hardy, che ci accompagna all’interno di I ladri che non smettevano di starnutire, dove un quattordicenne si mostra estremamente saggio, ritroviamo anche quella di Donald E. Westlake che, in Lo scassinatore e il Come-si-chiama, ci introduce nell’abitazione di un inventore smemorato e in un’avventura ai limiti dell’assurdo.

Ecco che ha inizio Un piccolo Natale sherlockiano, composto da sei racconti che hanno come protagonista il famoso detective Sherlock Holmes e tutti narrati dal punto di vista del suo aiutante Watson. Non avrei mai pensato di trovarmi davanti a Il segreto nel sacchetto del pudding e Il caso natalizio di Herlock Sholmes, perciò la loro scoperta, insieme a quella di colui che ha avuto il piacere di comporli (Peter Todd), ha riempito la mia esistenza di gioia. Se lo Sherlock Holmes o l’Herlock Sholmes di Peter Todd è gioviale e affabile, quello creato dalla penna di Gillian Linscott è decisamente più riflessivo e intimidatorio; eppure, anche nel secondo caso Sherlock non smette di stupirci con le sue riflessioni circa pregiudizi e credenze comuni:

«Signorina Jessica, il dottor Watson è senz’altro animato dalle migliori intenzioni, ma spero mi consentirà di spiegarmi da solo. Pensare che la vecchiaia conduca di per sé alla saggezza è un errore, ma se c’è una cosa di cui ci dota infallibilmente è l’esperienza. Mi permetti di darti un piccolo consiglio dettato, se non dalla saggezza, quanto meno dall’esperienza?»

Assentii, non per educazione, ora, ma per un senso di soggezione.

«Ebbene, il mio consiglio è il seguente: ricordati sempre che quando una cosa la sanno tutti, in realtà non la sa nessuno.»”

In aggiunta, rimarremo affascinati anche da Il cliente di Natale ad opera di Edward D. Hoch: un personaggio famoso avrà bisogno dell’aiuto di Holmes e Watson, questo l’indovinello che i due dovranno risolvere:

Di Benjamin Caunt quando sarà il giorno,

per cancellare dell’onta tua lo scorno,

ai piedi della faccia sua eminente,

presentarti dovrai con il contante.

Sull’orologio del Cappellaio Matto,

all’una sarai lì con il riscatto.

La Vecchia Signora è già spacciata,

per sempre sottoterra se n’è andata.”

Chi potrà mai essere?

L’atmosfera, però, si fan pian piano più cupa e spaventosa con Un piccolo Natale pulp, Un piccolo Natale occulto (che ho amato follemente perché mi ha ricordato le avventure proposte da Scooby-Doo!) e Un piccolo Natale spaventoso. Francamente non so quale racconto mi abbia maggiormente raggelata tra I cantori di Natale di Josephine Bell (interessantissima, tra l’altro, l’origine del suo pseudonimo), Il museo delle cere di Ethel Lina White (siamo davvero così ottusi noi esseri umani?), La mezzaluna stregata di Peter Lovesey e Il 74° racconto di Jonathan Santlofer.

Ho, al contrario, trovato estremamente piacevole Un Natale al campo di Edmund Cox: un’esperienza indiana paranormale, o quasi.

In Il tredicesimo giorno di Natale di Isaac Asimov, ci viene mostrato come il Natale possa verificarsi indipendentemente dalla data e, soprattutto, in virtù di chi ci circonda: è un racconto breve ma estremamente toccante. In Markheim di Robert Louis Stevenson, ci troviamo davanti ad un racconto per certi aspetti simile a Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, eppure non si smette mai di provare stupore davanti alle citazioni di Stevenson, ai discorsi sublimi tra i vari personaggi e al terrore insito in ogni parola.

«Uno specchietto» disse con la voce roca, poi fece una pausa e ripeté più chiaramente. «Uno specchietto? Per Natale? Ma certo che no!» «E perché no?» esclamò l’antiquario. «Perché non uno specchietto?» Markheim lo stava guardando con un’espressione indefinibile. «Mi chiede perché no?» disse. «Perché, guardi qui - guardi nello specchio - guardi se stesso! Le piace osservarsi? No. Ed è lo stesso per chiunque.»

[…] «Le chiedo un regalo di Natale» disse Markheim «e lei mi dà questo… questo maledetto promemoria di anni, peccati e follie… questa coscienza portatile? […]»”

Effettivamente, chi regalerebbe una coscienza portatile per Natale? Ma, soprattutto, chi altri saprebbe descrivere in modo così sublime l’oscurità insita nell’animo umano?

I racconti, come ho già scritto, sono parecchi e, in conclusione, se all’apparenza sembra esclusivamente una raccolta di racconti gialli, in realtà racchiude ben altro, come dimostrato da questi estratti. Mi auguro vi piacciano. Buona lettura.

Ringrazio infinitamente OscarVault per averci concesso la lettura del volume, @attimidiprosablog per aver organizzato tutto e i miei compagni d'avventura @metanfetalibri e @laragazzacalabrese.

(foto mia)



Gideon La Nona

“«Basta» sbottò la Reverenda Figlia, con la voce affilata come un rasoio. «Preghiamo.» Il silenzio scese sull’assemblea, come i lenti fiocch...