“Il mio caro
compagno di lotta, l’uomo che ammiro sia per la sua vita che per le sue opere,
aveva scritto un libro di circa cinquecento pagine nel suo olandese.
«Perché
non l’hai scritto in inglese o in persiano?» gli ho domandato.
«In realtà
l’ho scritto in una specie di olandese per evitare l’autocensura, un luogo dove
nessuno può trovarmi. Se scrivi nella tua lingua non puoi parlare di tutto. Per
questo ho cercato rifugio nel mio olandese stentato.»
Lì per lì
non sapevo cosa dire. Mi sono versato una tazza di caffè per avere il tempo di
riflettere. […]
«Ma perché
hai scelto come prologo questo brano di Farid al-Din ‘Attar?»
«Non lo
so, ma doveva stare lì. L’ho messo in cima a quel mucchio di fogli come una
pietra perché il vento non li portasse via.»”
Il sentiero
delle babbucce gialle, Kader Abdolah
Edito
Iperborea
Costo 19,50€
Nel momento
in cui scrivo queste parole, non ho ancora selezionato quale estratto collocare all’inizio
dell’articolo: ogni parte dell’opera è riuscita ad accarezzarmi, scaldarmi e
coccolarmi. Il motivo è probabilmente da ricondursi alla narrazione semplice,
armonica e fluida e al realismo celato anche in situazioni e avvenimenti non
verificatisi realmente, ma non solo. Ciò che rende questo libro così speciale,
come anche i precedenti, è il realizzare quale grandissima personalità lo abbia
composto: Kader Abdolah. Nato con il nome Hossein Sadjadi Ghaemmaghami
Farahani ad Arak (Iran) nel 1954, sogna sin dall’infanzia di intraprendere
la carriera di scrittore, ma -per un certo periodo- accantona questo desiderio
e si iscrive alla facoltà di Fisica di Teheran. Qui, per la prima volta, entra
in contatto con gli esponenti dei partiti rivoluzionari di sinistra ed in un’intervista
affermerà: “A casa i miei eroi erano Maometto e Fatima, ma all’università divennero
Castro e Che Guevara”. Tra i suoi
nuovi contatti vi sono Kader, uno studente di medicina, e Abdolah,
uno studente di architettura; entrambi verranno, successivamente, arrestati e
giustiziati dal regime degli ayatollah. Ecco da cosa nasce lo pseudonimo Kader
Abdolah: dall’accostamento dei nomi di due amici intimi, ingiustamente uccisi.
Infatti,
nel 1978, il già precario equilibrio politico, che vedeva lo scià Mohammad
Reza Pahlavi fortemente ostacolato dagli ulamā (individui esperti delle
scienze religiose musulmane* guidati -in quel periodo- dall’ayatollah**
Khomeyni), venne distrutto dalla cosiddetta Rivoluzione iraniana. La
Rivoluzione iraniana coinvolse non solo gran parte dei cittadini iraniani in
patria (di ispirazione religiosa, nazional-liberale e marxista, stanchi del
regime repressivo), ma anche di quelli esiliati all’estero; tra quest’ultimi
spicca l’ayatollah Khomeyni che, sebbene confinato a Parigi (Francia), scatenò
ed infiammò le proteste. Gli scontri proseguirono per circa un anno, fino a
quando lo scià Pahlavi decise di fuggire all’estero: infatti, anche i membri
dell’esercito (dopo una prima cruenta, ma inutile reazione) cominciarono a
rifiutarsi di uccidere i propri compatrioti, disobbedendo agli ordini del
sovrano. In seguito
all’allontanamento dello scià, le forze di opposizione (di ispirazione
religiosa, nazional-liberale e marxista) si riunirono sotto la figura
dell’ayatollah Khomeyni. Venne indetto un referendum e il 30 marzo del 1979
venne ufficialmente sancita la nascita della Repubblica Islamica dell’Iran. Così,
venne redatta una nuova costituzione che prevedeva l'esistenza parallela di due
ordini di poteri: quello politico tradizionale, a cui furono riservati
compiti puramente gestionali, e quello di ispirazione religiosa affidato
a una Guida Suprema (faqih) coadiuvata da un Consiglio dei Saggi (velayat-e
faqih), a cui fu demandato l'effettivo esercizio del potere e che
riconosceva nell'Islam il vertice dello Stato. Questa decisione comportò
delle radicali modifiche nella struttura sociale (le leggi e le scuole vennero
islamizzate e le influenze occidentali vietate) ed economico-produttiva dell’Iran:
iniziarono così degli scontri interni tra le varie fazioni dell’opposizione,
che all’inizio avevano appoggiato la stessa figura (Khomeyni). Ecco in quale
contesto avvenne la carcerazione e l’esecuzione di Kader e di Abdolah. Sempre in
questo periodo, Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani ritorna ad
interessarsi di scrittura e decide di adottare lo pseudonimo Kader Abdolah;
questa scelta lo costringerà nel 1985 ad abbandonare il paese in quanto lo
porterà ad essere identificato come membro attivo dell’opposizione. Si sposta
così ad Ankara (Turchia) per circa tre anni, fino a quando non entra in
contatto con una delegazione olandese delle Nazioni Unite. Dunque, decide di
rifugiarsi nei Paesi Bassi dove ottiene lo status di rifugiato politico.
In Olanda si
iscrive all’università di letteratura, impara la lingua da autodidatta e debutta
come scrittore nel 1993 con la raccolta di novelle Le aquile. Nel 1997
pubblica il suo primo romanzo e si fa pian piano spazio nel panorama letterario
olandese ed europeo. In un’intervista afferma di aver fatto propri i tranquilli
e poco mossi fiumi olandesi per poi arricchirli della musicalità, delle
lacrime e delle grida contro gli ayatollah proprie dei suoi fiumi persiani.
Ecco, quindi, quale risulta per Kader Abdolah il dovere degli immigrati:
conoscere il nuovo paese, assorbire e far propria la bellezza che questi
conservano e, infine, aggiungere altra bellezza proveniente dal loro vecchio
paese alla nuova società. Non penso ci siano parole più mature, ammirevoli ed
intelligenti di queste: il cambiamento fa parte della vita ed è nostro compito
cercare di costruire un futuro migliore all’insegna della bellezza e dell’integrazione,
cercando -per quanto possibile- di portare nella nostra valigia le cose
migliori. Naturalmente,
sia i conflitti che hanno coinvolto l’Iran che la vita di Kader Abdolah, sono
stati molto più complessi di come li ho descritti (si pensi alle altre potenze
interessate quali USA e Iraq ecc), eppure mi auguro che queste semplici parole siano
servite per far comprendere, almeno in parte, che grande uomo si cela dietro Il
sentiero delle babbucce gialle.
Il romanzo
ha inizio con un brano tratto dal poema allegorico Verbo degli uccelli, composto
dal poeta persiano Farid al-Din ‘Attar e risalente al XII secolo, che vede Hodhod
-l’upupa- porre ai suoi simili una domanda all’apparenza semplice ma essenziale:
“Come mai, era la domanda, il regno degli uccelli non aveva ancora un re?”.
Successivamente, la stessa Hodhod prosegue con “«Abbiamo bisogno di
un re, ma dobbiamo metterci in viaggio per cercarlo. In realtà è vicino a noi,
ma noi siamo lontani da lui. Migliaia di veli di luce e di tenebra lo
circondano. Il suo nome è Simorgh. E abita su una montagna inaccessibile
chiamata Qaf. Non illudetevi, sarà un lungo viaggio. Molte terre e molti mari
ci separano dalla nostra meta. Se il re Simorgh vi svelerà il suo volto,
capirete che ogni uccello non è che una sua ombra. Come l’ombra non è mai
separata da chi la genera, così tutti gli uccelli sono una rappresentazione di
Simorgh. Venite, dunque, e immergetevi nel mistero. Mettetevi in viaggio alla
ricerca del re. Chi vola in testa e chi vola in coda, formiamo tutti una cosa
sola. […]»”. Come spiega Natalia Tornesello (nella Nota critica posta alla
fine del volume), Simorgh rappresenta la Verità Assoluta e, alla fine
del viaggio, i pochi rimasti «… si accorsero che i trenta uccelli altri non
erano che Simurgh, e che Simurgh era i trenta uccelli». Ne consegue che il vero
significato del viaggio non è altro che “una ricerca di sé, un percorso
interiore e un ritorno in se stessi” (Natalia Tornesello, Nota critica). La
mia meraviglia davanti ad un brano che racchiude così tanta filosofia
occidentale, sviluppatasi molti anni dopo, è immensa. In queste parole, non è
solo racchiusa parte della filosofia di Spinoza, di Kant e di Hegel, ma quel
senso di mancanza e di ricerca che tutti noi sentiamo nel corso della nostra
esistenza. Ecco che acquista
significato anche un’altra affermazione sempre dello stesso Kader Abdolah: “Il
Corano è un libro pericoloso se si usa come un libro di regole, ma è anche un
libro antico, un capolavoro. Non ho mai letto un libro più bello del Corano. Perché
è così bello? Perché Maometto ha fatto qualcosa di subdolo: ha preso tutte le
cose belle e più importanti della Bibbia e le ha messe nel suo libro. Non leggete
la Bibbia, leggete il Corano: è la stessa cosa”. A quale conclusione voglio
arrivare? Siamo tutti esseri umani, al di là della cultura in cui nasciamo, e
come tali sentiamo e abbiamo gli stessi bisogni. Ecco che si spiega come mai, in
un testo del XII secolo, si possano ritrovare il panteismo e il panenteismo (Dio/Simorgh
è in me, ma io sono anche in Dio/Simorgh) di Spinoza, l’imperativo categorico (il
bisogno di ricercare un Re) di Kant ed il percorso di tesi, antitesi e sintesi (il
viaggio che ci spinge lontani da noi stessi e ci chiede di annientarci, per poi
farci tornare al punto di partenza arricchiti e più consapevoli) di Hegel. Eppure,
la
domanda che più mi preme porre è la seguente: perché Hodhod sente il bisogno di
cercare un re? Cosa la spinge ad abbandonare la sua vita e mettersi in cammino?
Quale breccia nella trama del mondo l’ha spinta a porsi tale domanda? Cosa ci spinge
ad andare oltre?
Dopo
questo brano, posto “in cima a quel mucchio di fogli come una pietra perché
il vento non li portasse via”, veniamo accolti nella vita di Sultan
Farahangi. Così, grazie ad una narrazione che si alterna tra passato e presente, impariamo
a conoscere Arak (paragonata a Petra nelle prime pagine), il castello di Arak,
Akram jun (sua cugina), Hushang e, nel complesso, la Persia del ‘900. Sultan racconta
la sua esistenza con occhi saggi, portandoci in un mondo fatto di religione, lotte
femministe, usanze poetiche e credenze magiche. Sono rimasta intensamente
colpita dalla lettura, avvenuta in un periodo in cui ho avuto bisogno di questo
libro per ricordare l’importanza della pazienza, della poesia, dell’arte e del jinn
che alberga nel nostro corpo. Riporto un passo che mi è rimasto nel cuore:
“L’essere
corpulento era un jinn, il jinn che viveva dentro di me. Mi proteggeva sempre,
mi consigliava quando era necessario e quando ero nel dubbio, decideva perfino
qual era la cosa giusta da fare. Ma se non ascoltavo i suoi avvertimenti,
veniva a sedersi sulla mia schiena con tutto il suo peso per farmi capire che
era ora di smetterla di vivere come avevo fatto fino a quel momento. Il jinn,
il mio jinn, non voleva farmi soffrire, ma non conosceva altro modo per dirmi
le cose. Faceva quello che doveva e lo faceva a modo suo. In realtà voleva
indurmi a imboccare il nuovo sentiero a cui pensavo e che ero indeciso se
prendere o meno”.
Cosa mostra questo passo? Il legame tra anima e corpo, il ruolo che la psiche ricopre nella nostra vita. A chi non è mai capitato di ignorare alcune sensazioni, alcuni avvertimenti provenienti dall'interno del nostro essere, per poi stare male anche fisicamente? Quanto è appagante ritrovare se stessi in tradizioni antichissime, come quella dei jinn? Ecco cosa mi ha dato quest'opera: appagamento, fiducia nel futuro e accettazione di sé perché, come afferma Sultan, "Sapevo che lottare contro me stesso non avrebbe portato a nulla. Ero quello che ero e dovevo darmi per vinto".
Eppure, Sultan si mostra estremamente acuto anche in altre situazioni, come ad esempio nel modo in cui racconta la sua esperienza in carcere: “Solo più
tardi, una volta libero, mi resi conto che imprigionare una persona significa
infliggerle una lesione al cervello. Qualcosa di simile ad un’ustione sul viso
o all’impronta dei denti di un serpente velenoso sulla caviglia: una cicatrice
terrificante e indelebile.”
In conclusione, quest'opera mi ha trascinato con sé ed è riuscita a mostrarmi la vita sotto una nuova luce: dolce anche nei momenti più duri, bisogna solo avere pazienza. Mi auguro che quest'opera vi aiuti come ha fatto con me. Buona lettura.
*Sono considerati i depositari e tutori della legge religiosa islamica (sharī‛a), e hanno quindi spesso rappresentato l’elemento conservatore e misoneista all’interno del mondo islamico fino ai nostri giorni.
**Āyatollāh è un titolo di grado elevato che viene concesso agli esponenti più importanti del clero sciita, talvolta al più autorevole, e ai mujtahidin, la casta dei dotti musulmani. Questo titolo negli ultimi decenni ha assunto una connotazione politica che prima era attenuata.
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