lunedì 29 marzo 2021

Brevemente risplendiamo sulla terra

 “È in questi momenti con te accanto che invidio le parole per essere capaci di fare quello che noi non sappiamo mai fare, sono capaci di dire tutto di sé rimanendosene ferme e basta, essendo e basta. Immagina se potessi sdraiarmi vicino a te e tutto il mio corpo, ogni sua cellula irradiasse un significato preciso chiaro e univoco, non tanto uno scrittore quanto una parola premuta verso il basso, accanto a te, che volta la pagina con tutta la mia breve e completa esistenza. C’è una parola di cui una volta mi ha parlato Trevor, una che aveva imparato da Buford che era stato nella marina militare delle Hawaii durante la Guerra di Corea: kipuka. Il pezzo di terra che viene risparmiato da una colata lavica lungo i fianchi di una collina, un’isola formata da ciò che sopravvive alla più piccola delle apocalissi. Prima che la lava scendesse, facendo scoppiare di calore e bruciando vivo il muschio lungo la collina, quella porzione di terra era insignificante, solo un altro ritaglio in una massa infinita di verde. Solo con la sua resistenza si guadagna un nome. Sdraiato su quel materassino con te, non posso fare a meno di desiderare di essere i nostri kipuka, la nostra conseguenza visibile. Ma sono più consapevole di così.”

Brevemente risplendiamo sulla terra, Ocean Vuong

 

Edito La nave di Teseo

Costo 18

 

Ho impiegato tanto tempo per scrivere di questo libro e ora, finalmente decisa nella mia impresa, sono nuovamente persa tra dolore, amore, odio e lo spazio che intercorre tra questi sentimenti. Mai come tra queste pagine ho colto la potenza delle parole, del camminare in punta di piedi tra i resti della propria esistenza e del guardarsi allo specchio per cercare di accettarsi in ogni senso, anche se “La verità è che nessuno di noi è un abbastanza che basta”, soprattutto a noi stessi. Ho dovuto lottare per accogliere il pieno significato di quest’opera, perché in certi momenti è stato quasi troppo e sì, “Non è giusto che la parola sacro sia intrappolata nella parola massacro”, però è così: cos’altro possiamo fare se non prenderne coscienza e affrontare ciò che ci circonda di petto?

Lan, com’è stato essere donne, e poi madri, durante la Guerra del Vietnam? “Ho fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi madre, ho trovato un modo per procurarci da mangiare. Chi è che può giudicarmi, eh? Chi?

Ma’, com’è stato abbandonare tutto per scappare, per non dover più sentire le esplosioni di Napalm e non dover temere lo stupro? Com’è stato scoprire, anche se lontani miglia dal proprio luogo d’origine, di dover comunque convivere con i propri ricordi e con la paura del Napalm?

“ “Dove mi trovo?” […] Non sapendo cos’altro dire, dico il tuo nome. “Rose,” dico. Rosa. Il fiore, il colore, la sfumatura. “Hong,” ripeto. Un fiore si vede solo verso la fine del suo ciclo, quando è appena sbocciato e già sul punto di diventare carta velina marrone. […] Quante volte definiamo qualcosa in base alla sua forma più fragile? […] Solo quando pronuncio questa parola mi rendo conto che Rose è anche il passato di rise. Che chiamando il tuo nome ti sto anche dicendo di innalzarti. […] Dove sono? Dove sono? Sei Rose, Ma’. Ti sei innalzata.”

Invece, chiedo a te, Little Dog, com’è stato amare nonostante ciò che il disturbo post-traumatico da stress comporta? Com’è stato reggere sulle proprie esili spalle il ponte che collega passato e futuro? Com’è stato trovare disperazione anche nel Mondo Nuovo e nei suoi abitanti? Com’è stato vedere distrutti i propri cari prima dal Napalm e poi dall’OxyContin? Dimmelo tu, dimmelo ancora perché in te vedo il dolore che si prova nell’essere vivi ma anche il bisogno di cercare di amare e abbracciare chi ci circonda. Vivendo si impara, leggendo te, Little Dog, si impara ad empatizzare, ad osservare l’altro e provare il bisogno di abbracciarlo. Un enorme grazie a Ocean Voung e a Claudia Durastanti con la sua traduzione impeccabile. Buona lettura.



mercoledì 24 marzo 2021

La morte di Ivan Il’ič

 “D’un tratto, una qualche forza sconosciuta l’aveva colpito nel petto, nel fianco, gli aveva fatto mancare il respiro ancora di più, l’aveva fatto sprofondare nel buco e là, alla fine del buco, qualcosa aveva brillato. Gli era successo quel che succede quando si viaggia nel vagone di un treno, quando si pensa di andare avanti e invece si va indietro, e d’un tratto ti accorgi della direzione del viaggio. “Sì, è stato tutto sbagliato,” si era detto, “ma non fa niente. Si può, si può fare qualcosa di giusto! Ma cosa?””

La morte di Ivan Il’ič, Lev Tolstoj

 

Edito Feltrinelli

Costo 8€

 

Cosa fa più paura: ritrovarsi ad assaporare le ultime gocce della propria concentrata esistenza, realizzando di non aver colto il senso della vita, o non avere nessuno accanto che ci sposti le tende dalla finestra e ci consenta di osservare l’ultimo tramonto, l’ultimo volo instancabile di un moscerino indaffarato – al cui confronto siamo quasi immortali – e l’ultima foglia caduta dal nostro albero del cuore?

Ma alla fine, qual è davvero il senso della vita? Come possiamo affermare di aver sbagliato nel viverla? Soprattutto negli ultimi istanti, non dovremmo perdonare noi stessi e accettare i nostri errori, la nostra cecità e la nostra confusione? Come potevamo prevedere ciò che ora ritroviamo ai piedi del nostro letto? Perdono, sia per ciò che abbiamo stretto fin troppo che per ciò che abbiamo dimenticato. Così, ho apprezzato Ivan Il’ič soprattutto nella seconda metà dell’opera, quando capisce di essere tornato bambino, di quanto amore e attenzioni abbia bisogno un essere umano e di quanto la psiche governi il nostro corpo: “Il dolore non diminuiva; ma Ivan Il’ič faceva degli sforzi su se stesso per costringersi a pensare di star meglio. E riusciva, perfino, a ingannare se stesso, se non c’era niente che lo turbava.”. Ivan Il’ič – in queste pagine - scopre di essere fragile, di non avere più le forze di proteggersi dagli assalti esterni, eppure ritrova conforto e sostegno nella figura di Gerasim e, forse, questo alla fine lo salva e gli consente di lasciare questo mondo in pace.

Mi auguro vi faccia riflettere. Ringrazio @lettura.nostalgica per il GdL da lui creato. Buona lettura.




martedì 23 marzo 2021

Il serpente

 “Pensa com’è quando fa giorno dopo una breve notte d’estate. Qualcuno immerge la scopa nell’acido cloridrico e spazza via le stelle dalla volta del cielo, lucida e tesa come un elmetto. Qualcuno lancia nello spazio piccole gocce di inchiostro rosso, che si spargono come se lassù si imbattessero in un foglio di carta assorbente. E viene la luce, ed è come se la notte si liberasse di uno strato di ragnatele: ragnatele spesse e nere che è facile afferrare, mentre quelle grigie e sottili sono ancora ostinatamente sospese sopra la terra, ed è per questo che chi cammina nel bosco, da nord a sud, crede che sia ancora notte finché non vede luccicare l’erica davanti a sé. Accade così all’improvviso, così in fretta che forse, sulle prime, pensa che sia lo svolazzare di una farfalla dalle ali gialle, lì nella radura, e magari si mette a correre nell’erica bagnata per catturarla. Poi però si accorge dell’errore e, quando si volta, il cielo dietro di lui, dal limitare del bosco fin su in alto per chilometri e chilometri, arde di un rosso così intenso da far temere che possa crollare per il calore. E invece fa freddo, è l’ora più fredda del giorno e anche il momento più limpido, quando le ultime ragnatele della notte vengono spazzate via dalle scope d’acciaio del mattino.”

Il serpente, Stig Dagerman

 

Edito Iperborea

Costo 18

 

Il serpente attraversa lentamente queste 297 pagine, esponendo le sue squame alla luce calda, rovente e asfissiante del sole che si abbatte su un campo d’addestramento militare in Svezia. La sua visione lascia un segno indelebile sugli animi dei presenti, portandoli ad abbandonare gran parte dei costrutti sociali più disparati e ad accogliere l’istinto, la pancia e l’emotività: “[…] lei si sentì messa a nudo di fronte a se stessa, […], lasciò che tutte le sensazioni che la sopraffacevano si prendessero cura di lei e la guidassero a quella sottilissima linea di confine dove i prati della ragione e del pensiero si mutavano nella palude dei sentimenti, e oltrepassando quel confine provò un piccolo, folle senso di trionfo e pensò: «Me ne infischio.»”. Come posso descrivere, senza incorrere in errore, il senso di abbandono con cui questi personaggi provano a sconfiggere il senso di alienazione e mancanza che la vita li ha costretti ad ingoiare? Come posso descrivere, senza incorrere in errore, la strana ma piacevole architettura dell’opera? Come spiegare, soprattutto da ciò che emerge nel primo racconto, l’umanità smascherata nella sua bestialità e nella sua costante lotta tra ragione ed istinto? Qui c’è tutto e molto di più: c’è la paura di un essere strisciante (ma sarà davvero il serpente?), il senso di liberazione che si prova allontanando chi ci disprezza, il sentirsi inadeguati, il sentirsi delle macchine e nient’altro e, soprattutto, il terrore di doversi guardare allo specchio senza salvagente o altro aiuto.

In quest’opera Dagerman ci costringe a chiederci quanto sarebbe semplice essere delle macchine, convincendoci, però, ad amare la nostra essenza umana: a quanti mancherebbe osservare il cielo e ritrovare in esso i nostri più intimi pensieri?

Buona lettura.



venerdì 12 marzo 2021

Tess dei D'Urberville

 “L’unico esercizio fisico che Tess si concedeva a quell’epoca aveva luogo dopo il tramonto; solo allora, fuori nei boschi, le sembrava d’essere meno sola; sapeva come cogliere con precisione quell’attimo della sera, quando la luce e l’oscurità si compensano così equamente che le certezze del giorno e i dubbi della notte si neutralizzano, lasciando un’assoluta libertà mentale. È allora che il difficile impegno d’essere vivi si riduce al minimo. Non temeva le ombre, il suo unico pensiero sembrava quello di evitare l’umanità, o meglio, quella fredda concrescenza chiamata mondo, che, così terribile nella massa, è così meschina, anzi penosa, nelle sue unità.”

Tess dei D’Urberville, Thomas Hardy

 

Edito Rizzoli – BUR

Costo 10

 

In queste pagine, tra i boschi e i campi del Wessex, si erge solitaria - ma resistente - una figura femminile di grande forza, coraggio e determinazione: Tess D’Urberville. Ad affiancarla, sin dai primi capitoli, ritroviamo una famiglia numerosa, sbadata e, soprattutto, con a capo due figure genitoriali particolarmente negligenti: così, i ruoli si invertono e chi dovrebbe educare e lavorare, demanda ai più piccoli e ingenui i compiti più gravosi. Non mentirò: probabilmente, ho sofferto più della stessa Tess nell’osservare l’incuranza e la mancanza di protezione da parte di Jack e Joan; non penso possa esistere un qualcosa di così terribile e dilaniante come un’abitazione senza tetto e pericolante (perché un nucleo familiare in cui mancano dei punti di riferimento è come una casa senza fondamenta, senza tetto e priva di sicurezza) e un’esistenza innocente rovinata dalla mancanza di attenzione e avvertimenti. Così, Tess, che appare immediatamente come un essere umano estremamente sensibile e buono, inizia il suo percorso di vita in questo ambiente contorto e, spesso, inadeguato, che la porterà a provare uno dei dolori più grandi che un’esistenza possa affrontare: la mancanza di libertà, il diventare oggetto del desiderio altrui e il subire un estenuante e pericoloso processo di deumanizzazione. Il frutto di questa esperienza mortificante prenderà il nome di Sorrow, Sofferenza, e le pagine che descrivono la sua nascita e il suo breve percorso di vita, penso siano le più commoventi e intense di tutta l’opera. Grazie a Sorrow, Tess diventa consapevole di quanto la vita sia complessa, di come l’amore possa nascere indipendentemente dal contesto, ma – soprattutto – di come la vita resista anche agli assalti più duri e spietati. Dopo il riconoscimento (soprattutto dell’innocenza che c’è in lui), l’accettazione, il battesimo e il superamento della perdita (di Sorrow), Tess torna lentamente a vivere: realizza quanto la vergogna sia relativa e ritrova speranza nel futuro lontano e dimentico del passato.

Non so cosa mi abbia colpita maggiormente, se la sua capacità di rialzarsi nei momenti più dolorosi o se la sua profonda sintonia con la natura (lei è un vero e proprio spirito della natura), traendo da essa ispirazione e conforto, in ogni caso, sono rimasta sbalordita davanti a questo piccolo concentrato di vita e tenacia. Tess giunge così a Talbothays più tranquilla e più saggia, eppure la vita – nonostante ciò che ha affrontato in precedenza – ha ancora molto da insegnarle. Thomas Hardy disseziona e analizza meticolosamente il dolore, l’angoscia e la vergogna che accompagnano lo stupro e il tentativo successivo di ricostruire la propria dimora ridotta in cenere. Tess non ha colpe, ciononostante realizza quanto questo abbia poco significato agli occhi dell’altro, perché l’altro – perfettamente incarnato da Angel – si erge a giudice e, proprio come nella favola Le due bisacce di Esopo, vede esclusivamente i difetti altrui, ignorando i propri. Non ho amato nessuna figura maschile presente nell’opera, ho apprezzato Angel esclusivamente nella parte conclusiva, ma riconosco quanto possa essere potente l’idealizzazione della persona amata e, per questo motivo, concedo ad Angel il beneficio del dubbio. In conclusione, trovo sia un’opera sublime – anche se non goduta particolarmente a causa della traduzione e del ritrovamento di diversi errori. Vi auguro buona lettura.



mercoledì 3 marzo 2021

I salici

 “Osservai il deserto di acque selvagge, guardai i salici sussurranti, sentii i colpi incessanti del vento instancabile; ognuno di loro, a modo suo, risvegliò in me quella sensazione di strano disagio. Ma i salici in modo particolare, che continuavano a chiacchierare e parlare tra di loro, ridevano un po’, poi stridevano, a volte sospiravano – ma il motivo per cui facevano tutte queste cose apparteneva al segreto della vita e della pianura che abitavano. Era alieno al mondo che conoscevo io, o a quello selvaggio ma gentile degli elementi. Mi facevano pensare a degli esseri di un altro livello di vita, un’altra evoluzione, forse, che discutevano di un mistero di cui solo loro erano a conoscenza. Li guardavo muoversi tutti insieme, scuotere le teste folte, roteare miriadi di foglie anche quando non c’era vento. Si muovevano di propria volontà, come se fossero vivi, e toccavano, in qualche modo incomprensibile, il mio acuto senso di terrore.”

I salici, Algernon Henry Blackwood

 

Edito ABEditore

Costo * ringrazio infinitamente @attimidiprosablog per questo gesto inaspettato e profondamente gradito

 

I salici è un racconto che vede due compagni di viaggio (più nello specifico, di canoa) perdersi tra le atmosfere suggestive, affascinanti e – al tempo stesso – cariche di suspence e di inquietudine, create dal connubio tra le placide acque del Danubio e la malleabile terra su cui poggia un vasto mare di basse siepi di salici: la zona in cui si snodano le vicende è contrassegnata sulla mappa dalla parola Sumpfe, ovvero paludi. Il solo accenno al luogo che i due compagni si trovano ad attraversare, può far capire quali scenari osserveremo in queste 141 pagine. Eppure, risulta comunque difficile spiegare quanto sia stato intrigante, elettrizzante e coinvolgente ritrovarsi accampati in un isolotto circondato da acqua stagnante, dal sole calante e dalla luna crescente e da una miriade di spettatori, attenti ad ogni nostro gesto, ad ogni nostro respiro. In aggiunta, ciò che più mi ha lasciata appagata da questa lettura, sono state alcune riflessioni – fatte con molta cautela – che, sebbene elaborate in una situazione estrema, possono essere applicate alla vita di tutti giorni, in particolar modo alle nostre paure di tutti i giorni e ai nostri traumi: “«Ma hai ragione su una cosa,» aggiunse, prima di far cadere l’argomento «ovvero che saremmo più saggi a non parlarne, o addirittura a non pensarci, perché quello che uno pensa trova espressione nelle parole, e quello che uno dice poi accade.»”. Quante volte abbiamo cercato di eliminare un ricordo o una sensazione evitando di parlarne? Davvero le nostre parole e i nostri pensieri hanno un potere così grande? Dobbiamo davvero stare attenti a ciò che desideriamo o pensiamo, perché rischia di avverarsi? Concludo menzionando i bellissimi disegni che accompagnano la lettura, rendendo le parole ancor più suggestive, e la curatissima traduzione che rende questo viaggio ancora più intenso. Mi auguro lo leggiate, buona lettura.




Gideon La Nona

“«Basta» sbottò la Reverenda Figlia, con la voce affilata come un rasoio. «Preghiamo.» Il silenzio scese sull’assemblea, come i lenti fiocch...