venerdì 30 ottobre 2020

Dune

 “- A che cosa stai pensando? - gli chiese Jessica.

-Penso che la spezia vale seicentoventimila solari al decagrammo sul mercato libero, oggi. È una ricchezza che può comprare tante cose!

- Anche tu sei stato afferrato dall’avidità, Wellington?

- Non dall’avidità.

- E da cosa, allora?

Scosse le spalle. – La futilità. – La fissò. – Vi ricordate di quando avete provato la spezia, la prima volta?

-Sì, ha un gusto di cinnamomo.

- Non ha mai due volte lo stesso gusto- replicò Yueh. - È come la vita, ha ogni volta un sapore diverso. Alcuni pensano che la spezia induca una reazione di sapore favorevole. Il corpo, una volta imparato che una cosa è buona per lui, l’accetta, e ce ne trasmette il sapore come gradevole… leggermente euforico. Come la vita, questa sostanza non può essere prodotta per sintesi.”

 

Dune, Frank P. Herbert

 

Edito Fanucci Editore

Costo 9,90 (vecchia edizione)

 

Il primo pensiero, una volta portata a termine la lettura, è stato il realizzare quanto questo libro fosse complesso, ben costruito ed estremamente chiaro. Avevo già intuito esclusivamente dalla lettura della trama il peso fantascientifico dell’opera, ma non avrei mai pensato potesse essere così piena e così vera sotto tanti altri punti di vista (religioso, militare, ecologico, scientifico e sociale). Tutt’ora, mi rimane addosso la sensazione che non si tratti affatto di un’opera di fantasia, bensì ricalchi perfettamente fatti storici appartenenti al nostro mondo. Muad’Dib - ovvero «Colui che indica la Strada» - mi ha ricordato fortemente un’altra figura - che non cito per evitare accuse di eresia - che è tutt’oggi molto acclamata e sulle cui parole si basano le fondamenta della nostra cultura: non riesco a scindere le due storie, le due vite. È come se Herbert avesse cercato di celare alcune verità storiche all’interno di un’ambientazione fantascientifica, rendendo così ancora più affascinante l’opera creata.

Il romanzo ha inizio con il trasferimento della casata degli Atreides, per ragioni politiche, da Caladan – un pianeta ricco e prospero – ad Arrakis, anche detto Dune, conosciuto in tutta la galassia come un pianeta fortemente inospitale. I personaggi che si muovono sul suolo desertico di Dune, si trovano ad osservare i creatori (enormi vermi dalla bocca costellata da denti aguzzi e che vivono nel sottosuolo) e sono costretti all’interno di tute distillanti sono molteplici; quelli che più hanno attirato la mia attenzione sono: la popolazione autoctona, il binomio Paul-Muad’Dib, la Bene Gesserit Jessica, il Duca Leto, il dott. Yueh e il mentat Hawat.

La popolazione autoctona, i cosiddetti Fremen, è costretta ad una rigida disciplina (ad esempio uso di tute distillanti, in grado di riciclare l’acqua persa attraverso il sudore o altri fenomeni fisiologici, e uso di una particolare tecnica di movimento) sia per via della convivenza con le creature del deserto, sia per via della scarsità delle fonti idriche che caratterizzano il pianeta. Mi ha incantato osservare la loro capacità di adattamento: dal modo in cui si muovono sulla sabbia, al modo in cui fanno proprio – sognando un futuro diverso - un territorio così difficile.

Al contrario, sono stata indecisa fino alle ultime pagine se apprezzare o meno il personaggio di Paul – poi noto come Muad’Dib- perché impressionata dallo sguardo – spesso molto freddo – che è in grado di riservare al mondo, ai suoi cari e nei suoi stessi confronti. Ora, a lettura ultimata, posso dire di averlo compreso e di aver capito quanto sia difficile mantenere calore quando si è costretti ad un terribile scopo e si hanno grandi responsabilità. Inoltre, una delle caratteristiche del binomio Paul-Muad’Dib che più mi hanno fatto riflettere è stato l’ateismo, celato il più possibile, che appartiene all’uomo di tutti i giorni (Paul); un uomo totalmente diverso da quello acclamato dalle folle, dal profeta richiesto dal popolo (Muad’Dib).

“E pensò: Sono un seme.

Improvvisamente vide quanto fosse fertile il terreno sul quale era caduto, e, rendendosi conto di questo, il suo terribile scopo lo soverchiò, insinuandosi in quello spazio vuoto dentro di lui, minacciando di soffocarlo di dolore”.

Sin dagli albori della sua esperienza tra i Fremen, Paul è consapevole di quanto ogni messaggio - di cui si fa portatore - possa essere frainteso e di quanto sia utile ai fini politici l’essere considerato divino, saggio, profeta.

Riporto il seguente passo:                         

 “Quando la legge e il dovere sono una cosa sola, unita dalla religione, noi perdiamo un po’ della nostra consapevolezza. Non siamo più pienamente coscienti, non siamo più individui completi.

Da «Muad’Dib: Le novantanove meraviglie dell’universo» della Principessa Irulan

Le parole che porto dentro al cuore e che ricordo perfettamente, anche a distanza di mesi dalla lettura, sono le seguenti: “Dio creò Arrakis per temprare il fedele. Dalla «Saggezza di Muad’Dib» della Principessa Irulan”.

È stato ancora più interessante notare come ciò che per alcuni è manna dal cielo o segno della presenza della divinità, per altri è esclusivamente accurata progettazione. In questo è fondamentale Jessica, madre di Paul, concubina del duca Leto e membro della sorellanza Bene Gesserit; è lei, infatti, che nota il lavoro compiuto tempo addietro da una Missionaria Protectiva – facente parte della sorellanza - al fine di influenzare la religione dei Fremen, tramite miti e profezie, e garantire così l’accoglienza futura di una sua sorella.

Un personaggio che non si può non ammirare è il duca Leto: i suoi valori e il suo sacrificio mi hanno commossa all’inverosimile. Al contrario, ho trovato particolarmente fastidioso il mentat Hawat, forse più del dott. Yueh: non mi ha convinto il loro modo d’agire.

In conclusione, Dune è un’opera magistrale, poetica, profetica e filosofica che merita la nuova popolarità che sta ricevendo, soprattutto grazie al film in uscita. Mi auguro vi piaccia. Buona lettura.


(foto mia)


lunedì 12 ottobre 2020

La guerra dei papaveri

 “Jiang la stava preparando ad alcune eventualità, a un insieme di nuovi concetti. Come si fa a spiegare ai bambini cosa sia la forza di gravità prima che questi sappiano cosa significa cadere? Certe cose possono essere apprese tramite la memorizzazione, per esempio i libri di storia o di grammatica. Altre, invece, hanno bisogno di tempo per essere impresse nella mente, per avverarsi in quanto parte imprescindibile dello schema di tutte le cose. Il potere stabilisce ciò che è accettabile e ciò che non lo è, le aveva detto una volta Kitay. Si poteva forse dire lo stesso anche per la trama del mondo naturale?Jiang cambiò la percezione del reale di Rin. […] Imparò a non rinnegare le cose che Jiang le mostrava solo perché erano incompatibili con la sua precedente percezione. […] 

«Cosa si intende con la parola dèi?» domandò Jiang. «Perché abbiamo gli dèi? A cosa serve un dio nella società? Analizza queste questioni. Trova le risposte.» […]

I concetti separati nella mente di Rin si connessero a formare una rete che sembrava essere sorta dal giorno alla notte. Le basi che Jiang aveva gettato, ora acquisivano significato completo e assoluto. […]

Jiang la guardò di sbieco. «Sai cosa significa la parola enteogeno?» Lei scosse la testa. «Indica la genesi della divinità interiore» disse lui. Jiang allungò la mano e la toccò con la punta del dito nello stesso punto sulla fronte. «La fusione tra dio e uomo.»

«Ma noi non siamo dèi» rispose lei. […] «Che differenza c’è tra dio interno ed esterno? Qual è la differenza tra l’universo racchiuso nella tua mente e quello esterno?»”


La guerra dei papaveri, R. F. Kuang

 

Edito Oscar Vault

Costo 22€

 

La narrazione de La guerra dei papaveri ha inizio con lo svolgimento da parte della protagonista, Rin (un’orfana di guerra, affidata alle cure di una fredda famiglia implicata nella distribuzione illegale di oppio), di un esame fortemente selettivo, il kējǔ, il cui superamento le consentirebbe di allontanarsi dalla condizione di sfruttamento in cui è cresciuta e di rifiutare il matrimonio combinato a cui è stata costretta, per poter plasmare da sola, o quasi, la propria esistenza. Così, da una situazione apparentemente ordinaria, si viene introdotti nel continente del Nikam, il cui passato, caratterizzato dall’alternarsi di periodi di pace dall’equilibrio precario ad altri sanguinosi e turbolenti, e il cui presente sono tutt’altro che banali. 

Nell’epoca in cui sono narrate le vicende, la regione è suddivisa in 12 province, ciascuna amministrata da un signore della guerra, unificate sotto il governo dell’Imperatrice, conosciuta anche – per via dei poteri conferitegli dagli dèi - come la Vipera. Nel corso dei secoli, infatti, si è cercato di raccogliere le varie aree sotto la guida di un’unica figura per evitare non solo i conflitti interni, ma soprattutto per poter contrastare efficacemente le mire espansionistiche della Federazione di Mugen, sita in un’isola adiacente al continente. Durante il periodo di crescita e formazione di Rin, riuscita a superare il kējǔ e ad entrare all’Accademia (la scuola militare più prestigiosa del Nikam), rincominciano i conflitti tra le due potenze (Nikam e Mugen). Eppure, è riduttivo relegare la trama di questo volume al semplice inasprirsi dei conflitti tra i due paesi; infatti, come si evince dall’estratto riportato sopra, il leitmotiv dell’opera è rappresentato dal bisogno di porsi domande in tutti gli ambiti e malgrado le proprie convinzioni del momento. Noi tutti dovremmo concederci del tempo per ampliare le nostre visioni, per ragionare su credenze e comportamenti spesso dati per scontati, anche quando pensiamo di essere giunti alla rivelazione finale, alla verità assoluta. Perciò, risulta difficile definire e descrivere chiaramente tale volume: i temi affrontati non sono mai netti e unici, si confondono e sfumano l’uno nell’altro. A dimostrazione di ciò, riporto il seguente passo:

Di sicuro, ce l’avrebbe fatta a rimettersi in pari. Ma quel problema si sarebbe ripresentato tutti i mesi. Ogni dannato mese il suo utero si sarebbe lacerato, l’avrebbe lasciata in balia di impeti d’ira e l’avrebbe resa gonfia, impacciata, rintronata e, cosa peggiore di tutte, debole. Poco da stupirsi che le donne di rado restassero alla Sinegard. Doveva sistemare questa faccenda”.

Rin, giunta da un ambiente rurale e poco scolarizzato, si trova per la prima volta alle prese con un fenomeno fisiologico – le mestruazioni -- di cui fondamentalmente non sa nulla ed inizia a riflettere sulle implicazioni che questo avrà sulla sua vita, sul suo addestramento e sulla sua carriera. La ricerca di una via di fuga raccoglie in sé sia il bisogno di allinearsi agli standard maschili, sia l’enorme problema della disinformazione e la necessità di una formazione sessuale (anche nel mondo reale persiste la quasi totale ignoranza su tali questioni), sia il problema dell’irreversibilità di alcune scelte. Non mi discosto dalla soluzione da lei trovata (che non cito per evitare spoiler), perché so quanto possa essere invalidante il ciclo mestruale (non solo a livello fisico – crampi – ma soprattutto a livello mentale – stanchezza, debolezza, confusione ecc), ciononostante mi dispiace sia stata costretta (tutti vogliamo assicurare il nostro futuro) ad una scelta così drastica e dolorosa, senza prendere in considerazione eventuali ripensamenti. Ecco cosa mi ha colpito: la richiesta di continui sacrifici da parte del corpo femminile, non solo in quest’opera fantasy ma anche nella vita di tutti i giorni, come se fossero scontati, normali e necessari.

Un altro estratto interessante è il seguente:

“Ricominciò a farsi delle bruciature. Nel dolore trovava un sollievo confortante e familiare. Era un compromesso cui era abituata. Il successo richiedeva sacrificio. Il sacrificio significava dolore. Il dolore significava successo. Smise di dormire. Prese a sedersi in prima fila per non appisolarsi. Soffriva di costanti mal di testa. Aveva sempre lo stimolo di vomitare. Smise di mangiare. Divenne infelice. Del resto, tutte le alternative l’avrebbero relegata all’infelicità”.

Ed il senguente:

«Mi chiedo che aspetto abbiano i soldati federati» disse Kitay mentre scendeva dalla montagna per procurarsi armi affilate all’armeria. «Hanno braccia e gambe, suppongo. Forse anche una testa.» «No, intendo, a chi somigliano?» chiese Kitay. «Ai nikariani? Tutti gli abitanti della Federazione provengono dal continente orientale. Se non sono come gli esperiani, allora devono avere una faccia in qualche modo normale.» Rin non capiva che importanza potesse avere. «E cosa c’entra?» «Non vuoi vedere che faccia ha il nemico?» chiese Kitay. «No, non voglio» rispose lei. «Perché in quel caso potrei considerarli umani. Ma non lo sono. Stiamo parlando della gente che durante l’ultima invasione dava l’oppio ai bambini di due anni. Della gente che ha massacrato gli speerliani.» «Forse sono più umani di quanto pensiamo» disse Kitay”.

 Cosa posso aggiungere? Ben poco, tanti altri passi mi hanno colpita ed emozionata, ma nel complesso posso dire di aver apprezzato la trama, i personaggi e l’ambientazione. Aspetto con ansia il secondo volume per capire ulteriormente l’intreccio e cercare risposte ad alcuni quesiti.

In conclusione, se volete immergervi in un fantasy entusiasmante dal profumo dolciastro di oppio e in un mondo in cui le arti marziali sono fondamentali, in cui alcune divinità cercano vendetta attraverso gli uomini e in cui esiste un luogo chiamato Chuluu Korikh, allora siete nel posto giusto. Buona lettura.

Ringrazio infinitamente @attimidiprosablog per aver organizzato l'evento, la OscarVault per averci concesso il libro in anteprima e i miei compagni d'avventura @metanfetalibri e @laragazzacalabrese

I link per accedere ai loro blog sono i seguenti:

www.attimidiprosablog.blogspot.com

www.laragazzacalabrese.blogspot.com

www.appuntidiunlettorecompulsivo.blogspot.com

(foto mia)

martedì 6 ottobre 2020

Moby Dick

 “Alla base dell’albero maestro, esattamente sotto al doblone e alla fiamma, il Parsi s’era inginocchiato di fronte ad Achab, ma tenendo stornato il capo chino; […]

“Sì, sì, marinai!” gridò Achab. “Guardatela là, badateci bene: la fiamma bianca non fa che illuminarci la via per la Balena Bianca! […] Oh! Tu limpido spirito di limpido fuoco, che su questi mari io un tempo adorai come un persiano, finché nell’atto sacramentale tanto mi bruciasti da portarne tuttora sfregio, adesso ti conosco, limpido spirito, e adesso so che la sfida è il giusto modo d’adorarti. Né amandoti né riverendoti sarai benevolo, e anche odiandoti tu non puoi che uccidere; e tutti uccidi. Non è uno sciocco impavido colui che ora t’affronta. Io riconosco il tuo indicibile, insituabile potere; ma fino all’ultimo rantolo della mia tellurica vita io contrasterò il suo incondizionato, incompleto dominio su di me. Nel mezzo dell’impersonale personificato, qui sta una personalità. Sebbene al più soltanto un punto, da qualsiasi luogo provenga, in qualsiasi luogo vada, nondimeno, nel mio viver terreno, la regale personalità vive in me e si rende conto dei suoi regi diritti. […] Tu puoi accecare; però io posso procedere a tentoni. Tu puoi consumare; però io posso essere cenere […]” ”.

Moby Dick, Herman Melville


Edito Feltrinelli

Costo 12

 

Mi sono avvicinata a questo intramontabile classico quasi per caso, partecipando al gruppo di lettura organizzato da @cantodellapianura, e oggi -dopo quasi due mesi- non posso fare a meno di continuare a ringraziarla per avermi fatto avvicinare ad un’opera così intensa, profonda e folgorante. Sin dalla prima pagina ho ritrovato nella narrazione di Ismaele una sensibilità che mi ha lasciata stupefatta e tremante: “Chiamami Ismaele. Alcuni anni fa – lasciamo perdere precisamente quanti – avendo poco o punto denaro nel borsellino e nulla in particolare che m’interessasse a terra, pensai di fare vela qua e là per un po’ e andarmene a vedere la parte acquea del mondo. È un sistema che ho io per scacciar l’umor nero e regolare la circolazione. Ogni qualvolta che m’accorgo di star volgendo la bocca al torvo, ogniqualvolta che nell’anima mia umido e piovigginoso s’instaura novembre, ogniqualvolta che m’accorgo di soffermarmi involontariamente davanti ai magazzini di bare e di accodarmi a tutti i funerali che incontro, […] allora stimo sia ormai tempo di mettermi in mare al più presto possibile”. Cosa mi colpisce di più? Probabilmente la conoscenza dettagliata da parte di Ismaele della propria anima – infatti, nonostante la giovane età, mostra una percezione emotiva immensa; in quanti possono dire lo stesso? Non ignoriamo spesso noi stessi e ci rendiamo conto di stare male quando è già troppo tardi, ovvero quando abbiamo già in parte riversato inconsciamente il nostro novembre su chi ci sta vicino?

Così, queste iniziali poche righe ci introducono nel suo mondo e allo stesso tempo presagiscono la rotta che verrà intrapresa in queste 641 pagine: ogni parola ci porterà sempre più vicini al confuso e spesso inesplorato abisso dell’animo umano. Infatti, alla personalità narrante, sensibile e filosofica di Ismaele, si affiancheranno ben presto quella più pratica – ma pur sempre saggia – di Queequeg, quelle meno introspettive ma ilari e crude di Starbuck e Stubb e, infine, quella selvaggia, tenebrosa ed estremamente acuta di Achab (naturalmente, ci sono molti altri personaggi, ma sarebbe impossibile comprenderli tutti). Eppure, il fascino di questo volume risiede anche nei paesaggi descritti, nei riferimenti storici e nella capacità di Melville di alternare capitoli in cui sono incluse informazioni scientifiche riguardanti i cetacei, che colmano il lettore di meraviglia ed incredulità, a capitoli che trasportano all’interno di una vera e propria opera teatrale. Perciò, prima di indirizzare il mio pensiero verso Achab, poiché dalle sue scelte dipenderà il destino di molti, vorrei soffermarmi sul vero protagonista del racconto:

Ma come? Genio nel capodoglio? Ha mai il capodoglio scritto un libro, tenuto un discorso? No, il suo grande genio si dichiara nel suo non far nulla di particolare per dimostrarlo. Vieppiù si dichiara nel suo piramidale silenzio”.

Ed ecco chi impareremo a conoscere: l’immenso capodoglio e i suoi simili.

Il capodoglio è il cetaceo più grande munito di denti (non fanoni) e il più ricercato dalle baleniere del mondo del XIX secolo per via della grande quantità di spermaceti - una sostanza cerosa, semiliquida che veniva comunemente usata come combustibile per le lampade a olio e per la fabbricazione di candele - contenuta all’interno della sua noce, ovvero il suo cranio. Si ipotizza che il liquido sia implicato nell’ecolocalizzazione (biosonar) e nella galleggiabilità del cetaceo (prima dell’immersione viene garantito l’accesso di acqua fredda all’interno del compartimento ospitante la sostanza, la diminuzione della temperatura implica una solidificazione dello spermaceti con conseguente modifica del rapporto massa/volume e quindi modifica della densità; questo consentirebbe al capodoglio delle immersioni in profondità senza eccessivo sforzo muscolare). Eppure, il capodoglio è molto di più: è una creatura estremamente sensibile e intelligente che mostra un’eleganza impareggiabile sia grazie ai suoi movimenti sinuosi che grazie al suo tipico sfiato (nei capodogli lo sfiatatoio - l'organo respiratorio dei cetacei con funzione simile alle narici animali da cui prende origine – è unico e non doppio a differenza dei suoi simili). In un passo, attraverso Achab, Melville ci comunica la grandezza di questo essere:

“Era una testa nera e incappucciata; e appesa com’era in mezzo a quella bonaccia così intensa pareva la Sfinge nel deserto. “Parla, immensa e veneranda testa,” bisbigliò Achab, “tu che, sebbene sguarnita di barba, pure qua e là ti mostri canuta di muschi, parla poderosa testa, e dicci il segreto che è in te. Di tutti i tuffatori, tu ti sei tuffata più a fondo. Questa testa su cui adesso brilla alto il sole, s’è mossa tra le fondamenta del mondo. Dove immemori nomi e flotte arrugginiscono, e taciute speranze a ancore marciscono; […] Oh testa! Tu hai visto abbastanza da schiantare i pianeti e far d’Abramo un miscredente, e non sei capace d’una sola sillaba!””.

Così, nel complesso, le descrizioni che Melville elabora non lasciano l’animo del lettore indifferente. Eccone un’altra, in questo caso sulla Balena Giusta: 

Altri poeti hanno gorgheggiato le lodi del tenero occhio dell’antilope e del leggiadro piumaggio dell’uccello che mai si posa; meno etero, io celebro una coda. […] Il corpo compatto e rotondo della sua radice s’estende in due ampie, solide, piatte palme ovvero patte, che gradualmente s’assottigliano fino a meno d’un pollice di spessore. All’inforcatura ovvero congiunzione, queste patte leggermente si sovrappongono per poi divergere obliquamente l’una dall’altra come ali, lasciando nel mezzo un vasto spazio vuoto. In nessuna creatura vivente le linee della bellezza sono più squisitamente definite che negl’orli a mezzaluna di queste patte”.

I toni cambiano e diventano più intensi, duri e tenebrosi quando si parla di Moby Dick: mostruosamente bianco, con la mandibola storta e con occhi che sono in grado di comunicare odio e, inoltre, “congiuntamente posseduto da tutti gli angeli che caddero dal cielo”. Moby Dick non è un capodoglio, è la reincarnazione della parte più indifferente, selvaggia e violenta della natura -matrigna- e questo ci viene comunicato in ogni parola pronunciata da Achab sul suo conto. Ben presto, infatti, l’ossessione di Achab renderà impossibile parlare dell’uno senza citare l’altro. In uno dei pezzi più belli e chiarificanti dell’opera, viene chiarito uno dei dubbi principali del lettore: perché Achab attribuisce al capodoglio sentimenti umani? È davvero così irragionevole?

““Vendetta su una muta bestia!” gridò Starbuck, “Che semplicemente vi colpì per il più cieco degli istinti! Follia! Essere infuriato con una creatura muta, capitan Achab, mi sembra blasfemo.”

“Ascolta ancora una volta lo strato più fondo. Tutti gli oggetti visibili, amico, non sono che maschere di cartapesta. Ma in ogni evento – nell’atto vivente, nell’azione indubbia - lì, qualcosa di sconosciuto ma tuttavia raziocinante fa spuntare la sagoma delle sue fattezze da sotto la maschera irrazionale. Se l’uomo vuol colpire, colpisca trapassando la maschera! Come può evadere il prigioniero se non aprendosi un varco attraverso il muro? Per me, la balena bianca è quel muro, ficcatomi contro. Talvolta penso che al di là non ci sia nulla. Ma mi basta. Mi occupa; mi colma; io vedo in lei un’atroce potenza invigorita dal nerbo d’un imperscrutabile malanimo. Questa cosa imperscrutabile è ciò che odio di più; e sia la balena bianca l’agente o sia la balena bianca il mandante, io sfogherò su di lei quell’odio. […]””.

Cosa comunicano queste parole? Achab è più profondo e intelligente di quanto si pensi e capisce la necessità umana di avere uno scopo, di avere un capro espiatorio. Chi, dopo un’esperienza traumatica, non proverebbe a sconfiggere il senso di impotenza, di insignificanza e di fragilità attraverso l’ira? In questi casi, non si ha il diritto di odiare per poter cercare di guarire? Il rapporto tra i due è più complesso di quanto si possa pensare, l’odio è solo il primo strato, in profondità si cela un’enorme consapevolezza e un’aspra e inclemente visione del mondo. Achab fa riflettere sul bisogno umano di avere un nemico, ma non solo. Vi invito a leggerlo e a ritrovarvi in lui.



(foto mia)




martedì 1 settembre 2020

Poirot - Tutti i racconti

 “Hercule Poirot guardò pensoso la faccia scura e agitata del giovanotto che gli stava di fronte. «Eh bien?» disse. «Cosa volete da me?»

Evan Llewellyn non esitò un istante. La sua risposta arrivò veloce come un lampo. «La verità.»

Poirot, assorto, si accarezzò i baffi magnifici. «Ne siete sicuro, sì?»

«Certo che lo sono.»

«Ve lo chiedo» spiegò Poirot «perché è una risposta comune, di tante persone. E quando rivelo loro la verità, spesso non ne sono contente. A volte ne sono sgomente e altre imbarazzate. A volte sono completamente… sì, ecco… sbalordite. Che parola, sbalordite. Una parola che mi soddisfa enormemente.»”

Poirot e il mistero della regata, Poirot – Tutti i racconti, Agatha Christie


Edito Oscar Vault

Costo 25

 

Il volume, costituito da ben 974 pagine, raccoglie in ordine cronologico tutti i racconti che vedono come protagonista “un ometto dall’aspetto straordinario. Era alto meno di un metro e sessanta, ma aveva un portamento molto signorile. La testa era a forma d’uovo, costantemente inclinata da un lato. Aveva un paio di baffi rigidi, da militare”: Poirot. Eppure, quello di cui stiamo parlando è molto più di una semplice raccolta di novelle, non solo per via delle illustrazioni -che includono anche i fantastici cartelloni pubblicitari creati da Marco Amici di Radicalging- che accompagnano le vicende narrate da Agatha Christie, ma soprattutto perché consentono al lettore di conoscere e capire Poirot. Se ad un primo impatto emergono -per lo più evidenziati dal suo più caro amico, il capitano Hastings, che ritroviamo nei primi racconti- i tratti più irritanti del suo carattere, come ad esempio la sua arroganza, la sua presunzione* e la sua ossessione per l’ordine, accentuati in particolari occasioni (come quando si ritrova su qualsiasi tipo di imbarcazione -soffre tantissimo di mal de mer), successivamente emergono quelli più sensibili, malinconici, profondi e delicati.

*“Tutti gli ideali del mondo classico lo lasciavano sbalordito. Quegli dei e quelle dee sembravano forniti di tante personalità diverse quante ne poteva avere un criminale dei nostri giorni. E poi, a dire la verità, sembravano proprio tutti dei bei delinquenti! Ubriachezza, dissolutezza, incesto, violenza, saccheggio, omicidio, sotterfugi: abbastanza per tenere costantemente occupato un juge d’instruction. Nessuna vita familiare decente. Né ordine né metodo. Perfino nei loro delitti, né ordine né metodo. «Ercole dei miei stivali!» esclamò Hercule Poirot alzandosi in piedi, deluso e disgustato. Si guardò intorno con aria soddisfatta. Una stanza quadrata con buoni mobili moderni, quadrati… perfino una bella scultura che rappresentava un cubo appoggiato su un secondo cubo e, sopra questo, una composizione geometrica in filo di rame. E, al centro di quella stanza risplendente e ordinata, lui. Si guardò nello specchio. Dunque, ecco un Ercole moderno… diversissimo dallo sgradevole ritratto di una figura nuda, con i muscoli gonfi, che brandiva una mazza nodosa. Al suo posto, invece, una figura asciutta, vestita in abiti da città con un paio di baffi, baffi che quell’Ercole non si sarebbe mai sognato di farsi crescere, un paio di baffi magnifici, eppure sofisticati. Nonostante ciò, esisteva un punto di contatto fra questo Hercule Poirot e l’Ercole della mitologia classica. Sia l’uno che l’altro, indubbiamente, erano stati lo strumento necessario a liberare il mondo da certi flagelli… Ognuno di loro poteva essere descritto come un benefattore della società in cui era vissuto…”

Premessa a Le fatiche di Hercule, Agatha Christie

In più occasioni, attraverso poche parole, rivela un’immensa tristezza, dovuta probabilmente al dover lavorare a stretto contatto con i più feroci e terrificanti istinti umani, e un'immensa gentilezza nei confronti di chi fa di tutto per rendere questo mondo migliore. Come può il lettore non affezionarsi?

“«Non ho nemmeno parlato con i Gold, finora» ribatté Pamela in tono piccato. «E comunque non capisco perché non ci si debba interessare al proprio prossimo. La natura umana è semplicemente affascinante. Non lo pensate anche voi, monsieur Poirot?». Stavolta stette zitta un tempo sufficiente per consentire al suo interlocutore di rispondere. Senza distogliere gli occhi dall’acqua azzurra, Poirot rispose: «Ça dépend». Pamela era scossa. «Oh, monsieur Poirot, non penso che ci sia niente di tanto interessante… di tanto imprevedibile quanto un essere umano.»

«Imprevedibile? Questo no.»

«Ma certo, invece. Proprio quando uno pensa di averli ben sistemati entro la loro casella… ecco che fanno qualcosa di totalmente inatteso.» Hercule Poirot scosse la testa. «No, no, questo non è vero. È rarissimo che una persona compia un’azione che non rientri dans son caractère. Diventa persino monotono, alla fine.»

«Non sono affatto d’accordo con voi» ribatté Pamela Lyall. Tacque per un intero minuto e mezzo prima di tornare all’attacco. «Non appena vedo le persone comincio a pormi domande su di loro: che tipi sono, in che rapporti sono le une con le altre, che cosa pensano, che cosa provano. È… oh, è davvero eccitante!»

«Questo non lo direi proprio!» ribatté Hercule Poirot. «La natura umana si ripete più di quanto ci immaginiamo. Il mare» soggiunse pensosamente «è infinitamente più vario.» Sarah girò il capo di lato e chiese: «Voi pensate che gli esseri umani tendano a riprodurre certi schemi?».

«Précisément» disse Poirot e tracciò un disegno sulla sabbia con il dito.

«Che cosa rappresenta quel vostro disegno?» chiese Pamela con curiosità.

«Un triangolo» rispose Poirot.”

Triangolo a Rodi, Agatha Christie

 

Cosa mostra questo estratto? Una semplice distorsione professionale, che allontana Poirot dalla parte più buona dell’umanità, o un occhio e una mente acuti, capaci di andare oltre il particolare per poter cogliere l’universale e, di conseguenza, l’essenza dell’umanità? Siamo spesso convinti di essere unici e se, come afferma Steinbeck, non fossimo altro che la stessa -ripetuta- lotta primitiva tra bene e male? Quanto è impegnativo dover osservare costantemente il vero volto della realtà? Perciò, sarebbe stato possibile concepire un Poirot diverso, senza i tratti che fanno tanto infuriare il capitano Hastings?

Eppure, Tutti i racconti suscitano ammirazione e amore anche per via dei frequenti riferimenti storici e culturali:

«Mi date un soldino, signore?» Un bambinetto con la faccia sudicia gli rivolse un sorriso furbetto.

«Niente affatto!» disse l’ispettore capo Japp. «E, senti un po’, figliolo…» Seguì un breve predicozzo. Il monello, perplesso e sgomento, batté in una precipitosa ritirata, osservando asciutto e conciso ai suoi giovani amici: «Capperi, sono andato proprio a pescare uno sbirro con la lingua lunga!». La banda se la diede a gambe, cantando i versetti:

Ricordate, ricordate,

il cinque di novembre,

polvere da sparo, congiura e tradimento.

Non si capisce perché

perché il tradimento della polvere da sparo

debba essere dimenticato.

Il compagno dell’ispettore capo, un ometto anziano con la testa a uovo e un folto paio di baffi dal taglio militaresco, stava sorridendo fra sé. «Très bien, Japp» osservò. «Sapete fare ottime prediche, mi congratulo con voi!»

«Un pretesto che non sta in piedi per chiedere l’elemosina, ecco cos’è diventato il Giorno di Guy Fawkes!» disse Japp. «Un ricordo molto interessante dei tempi andati» meditò Hercule Poirot. «I fuochi artificiali scoppiettano in cielo… craccrac… anche molto tempo dopo che l’uomo che commemorano e le sue azioni sono stati dimenticati.» L’importante personaggio di Scotland Yard fu d’accordo con lui. «Mi piacerebbe sapere quanti di quei bambini sanno chi era Guy Fawkes.»

«Ah, senza dubbio, quanto prima nascerà anche una grande confusione a questo riguardo. È in onore o per condanna del cinque novembre che si fanno esplodere i feux d’artifice? Far saltare in aria il Parlamento inglese è stato un delitto oppure un nobile gesto?» Japp ridacchiò.

«C’è qualcuno che, indubbiamente, potrebbe essere di quest’ultima opinione.»”

Delitto nel Mews, Agatha Christie

Davanti a dialoghi così carichi di significato storico, non ci si può non commuovere. Perciò, in conclusione, se amate i delitti e siete curiosi di conoscere la psicologia che caratterizza la figura di Poirot, questo è un volume che fa per voi. Buona lettura.

(foto mia)

domenica 30 agosto 2020

Poirot e la pipa

Sebbene Poirot non abbia come tratto caratteristico l’aspirazione del fumo attraverso la pipa e in un passo affermi addirittura di non fumarla* e di prediligere la sigaretta, nell’immaginario collettivo -soprattutto per via dell’influenza del suo famoso collega, Sherlock Holmes, sulla stessa Agatha Christie e per via del contesto storico in cui nacque questa figura, con un’ampia diffusione della pratica in tutte le classi sociali, motivo per cui molti personaggi negli stessi racconti o romanzi la fumano- rimane uno degli oggetti maggiormente carichi di significato e associati alla figura del detective. Infatti, sebbene le opere della Christie si collochino all’interno del genere giallo, non mancano di acutezza e di profondi riferimenti psicologici. Perciò, naturalmente essendo consapevoli dei danni che si arrecano ad alcuni organi del nostro organismo (io stessa non ho mai intrapreso tale costume), quali sono le ragioni psichiche e sociali che si celano dietro a questa pratica? Secondo alcuni studiosi “fumare diventa il mezzo attraverso il quale superare tutto ciò che nell’individuo provoca tensioni psichiche intollerabili; agisce in termini di soddisfazione della pulsione derivante dal piacere di succhiare, ingerire ed incorporare, tipico della fase orale nel neonato” e questo può essere ricondotto anche al motivo per cui gli antichi hanno dato origini a questa pratica. Al contrario, Freud (da molti ritenuto un fumatore incallito), nella sua teoria dello sviluppo psicosessuale, ipotizzò che la ricerca di gratificazione orale -come quella tipica del consumo di sigarette- possa dipendere da un blocco dello sviluppo stadiale: a causa di traumi o condizioni avverse tale blocco può impedire alla persona di superare la fase orale (dell’infanzia), portandola ad esprimere la libido attraverso la suzione e altre strategie basate sulla stimolazione orale. Inoltre, vide anche tale tendenza come autodistruttiva e ipotizzò la presenza di due tipologie di pulsioni di vita e di morte chiamate Eros e Thanatos, intese come due componenti presenti in ciascuno di noi, che spingono la persona a soddisfare bisogni legati alla riproduzione e alla morte, ma anche all’autodistruzione. Eppure, negli anni Sessanta (e in alcuni contesti lo ancora oggi), divenne simbolo di emancipazione: l’inizio di tale pratica sanciva la fine dell’adolescenza e l’inizio dell’età adulta. Per tale motivo, in quest’articolo cercherò di risalire alle origini di tale strumento e di farvi conoscere com’è mutata nei secoli l’immagine che i più hanno di esso.

*“«Sono Hercule Poirot» disse il belga con dignità.

«Potreste anche essere la statua di Achille, per quello che me ne importa. Come

stavo dicendo, Barbara e io ci siamo lasciati in ottima armonia. Io sono andato direttamente

al Club Far East. Ci sono arrivato alle dieci e trentacinque e sono entrato

subito nella sala da gioco. Sono rimasto lì a giocare a bridge fino all’una e mezzo.

E adesso si cacci tutto nella pipa e se la fumi!»

«Non fumo la pipa» disse Poirot.

Delitto nel Mews, Agatha Christie

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Ragazzo con pipa, Pablo Picasso

Il gesto attraverso il quale viene preparata la pipa ha origini antichissime e ha avuto notevoli evoluzioni nel tempo, sia in fatto di tecniche che di materiali. La sua storia si confonde spesso con la leggenda ed è diversa da quella del tabacco, le cui origini risalgono all’epoca precolombiana. Infatti, sin dai tempi più remoti, il fumo ha esercitato sull’uomo un fascino particolare, a partire dai riti preistorici quando si bruciavano erbe aromatiche o inebrianti sulle braci per richiamare l’attenzione degli spiriti o delle divinità e chiedere loro aiuto e/o protezione. Si possono ritrovare delle testimonianze risalenti ai più antichi popoli africani e asiatici, che mostrano come il progenitore della pipa altro non fosse che un buco nel terreno in cui venivano adagiate delle erbe -tra cui anche la canapa- e fatte così bruciare. Perciò, se guardiamo il fumo e il fuoco da questo punto di vista, non potremmo forse attribuire a Prometeo anche il merito di aver consentito all’umanità di poter comunicare con gli dèi? 

Strumenti usati nell'aspirazione del fumo sono stati rinvenuti in tombe faraoniche risalenti al 2000 a.C. circa. Una strana pipa a forma di cilindro è stata scoperta a Mossul (odierna Siria) e si stima che risalga a migliaia di anni fa. Nell’antica Grecia e nell’antica Roma, come testimoniano gli scritti di Erodoto, Plinio il Vecchio e Plutarco, la pipa veniva utilizzata come strumento per aspirare il fumo generato dalla combustione di alcune erbe, quali la Damiana (erba, originaria del sud America e nota fra gli aztechi, conosciuta per via delle sue proprietà rilassanti, antidepressive e afrodisiache), il Verbasco (usate nell’antichità per curare problemi respiratori, asma, raffreddori e bronchiti), il rosmarino, la menta, la camomilla e molte altre per i motivi più disparati; addirittura, un affresco a Ercolano in cui delle donne sono ritratte mentre ne fumano alcune mostra quanto fosse radicata tale usanza. Ne Il Signore degli anelli si ritrova anche l’erba pipa, una particolare pianta che cresce nella Contea ed è molto apprezzata dai suoi abitanti Hobbit, dagli Uomini di Brea, dai Raminghi del Nord e dagli Stregoni che la fumano in pipe di legno per assaporarne il gusto: anche le opere di letteratura mostrano quanto sia radicato questo costume nell'uomo. La pianta del tabacco era considerata sacra; semi e foglie di tabacco sono state trovate recentemente durante i restauri di una mummia egizia. I semi di tabacco erano usati anche dalle popolazioni della Cina -oltre tremila anni fa- quali antifecondativi.

Le prime pipe, come le intendiamo noi oggi, sono quelle diffusesi tra le Tribù del Nord America. Erano costituite da una testa in pietra a forma di T rovesciata e da un lungo bocchino in legno, canna o pietra. Le più conosciute pipe indiane sono i Calumet della pace usati dalle tribù Sioux. Il fornello di queste pipe era minuziosamente scolpito mentre il bocchino di canna nera colorato e risultava ornato di penne d’aquila, crini e strisce di pelle con significato simbolico in relazione all’uso che ne veniva fatto. Questi strumenti erano molto lunghi: misuravano un metro e oltre. Le Tribù di questa terra fumavano in occasioni eccezionali: per accogliere degnamente l’ospite importante e per onorare il Grande Spirito; il rito era il seguente: ciascuno tirava quattro sbuffate verso i 4 punti cardinali. 

Calumet

In ogni caso, gli europei impararono a fumare la pipa dalle popolazioni del sud-est degli Stati Uniti, dove sono state rinvenute pipe dal bocchino curvo e dal fornello in terracotta. Infatti, in Europa l’uso della pipa ebbe inizio tra i marinai spagnoli e alla metà del sedicesimo secolo si era diffuso in Portogallo, Francia e Olanda. Agli inizi del ‘600 era ormai tradizione in tutti i Paesi europei. Le prime pipe artigianali diffuse in Europa erano probabilmente in argilla, molto comuni in Inghilterra alla seconda metà del ‘500. Queste erano costituite da un unico pezzo ed avevano un fornello molto piccolo. All’inizio del ‘700 il fornello aumentò di dimensione e la sua forma divenne più ricercata. Contemporaneamente in Olanda iniziò la produzione in argilla con le stesse caratteristiche di quelle inglesi -dovuta all’arrivo in Olanda dei protestanti inglesi cacciati dall’Inghilterra da Giacomo I. Nel 1617 venne aperta la prima azienda artigianale. Le pipe olandesi divennero presto il prototipo della produzione europea e vennero copiate un po’ ovunque, soprattutto in Germania, in Austria, in Svizzera e in Francia. La loro fragilità e la grande diffusione con la conseguente crescente richiesta portarono a un vero e proprio boom della fabbricazione industriale. Il prezzo era molto basso e ogni compratore ne acquistava dozzine per volta. La produzione migliorò grazie alla competitività tra fabbriche e la pipa si trasformò da strumento per il fumo in oggetto d’arte. Le forme e le dimensioni cambiarono notevolmente: quella olandese in argilla bianca che originariamente era lunga dai 10 ai 30 cm diventò nei primi anni del ‘600 lunga 30-50 cm per poi assumere una lunghezza che andava oltre gli 80 cm. Nel ‘700 la pipa deve fare i conti con il propagarsi, specie nelle classi più elevate, della voga del fiuto che dà origine alla produzione di oggetti spesso di pregio artistico (si pensi alle tabacchiere) e a un vero e proprio rito sociale. La pipa, a sua volta, si impreziosisce e si differenzia nelle forme e nella materia prima: metalli più o meno nobili e persino vetro (ricercata specialità, questa, di Bristol e di Venezia).

Ma è l’uso di una nuova materia, la schiuma di mare, a segnare un’ulteriore cambiamento nel modo di considerare questo oggetto: ancor oggi sono considerate assai pregiate e ricercate nella loro limitata produzione, sia nelle forme classiche che in quelle più artistiche. La cosiddetta schiuma di mare non è altro che il minerale scientificamente conosciuto come silicato di magnesio e, almeno nella specie più pregiata, si trova solo in Anatolia (Turchia) nel sottosuolo argilloso. La schiuma ebbe il suo periodo di maggior splendore dall’800 al ‘900; le migliori erano fabbricate a Vienna. Di pipe in questo materiale ne vengono tuttora prodotte soprattutto in Turchia.

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Pipa in schiuma di mare

Verso il 1850-60, con l’impiego di un nuovo legno durissimo e dalla venatura particolare, la Radica (Erica Arborea un arbusto che cresce solo sulle sponde del Mediterraneo) la pipa venne prodotta industrialmente con torni e macchine. I primi furono i francesi; seguiti dagli italiani. Così, la pipa si diffuse rapidamente in tutta l'Europa e in tutte le classi sociali.


Fonti:

https://www.romagnolopipe.it/storia-della-pipa/

https://www.gustotabacco.it/storia/183-origine-e-storia-della-pipa/

https://www.psicoterapiapsicologia.it/articoli-psicologia-psicoterapia/tabagismo-aspetti-psicologici-del-fumare

giovedì 27 agosto 2020

Agatha Christie e l'archeologia

 Agatha Christie nacque a Torquay (Devon, Inghilterra) il 15 settembre del 1890 da una famiglia agiata, fu la minore di tre figli e venne educata e cresciuta in casa dalla madre, circondata da forti e indipendenti figure femminili, almeno fino a quando -a 16 anni- non decise di andare a studiare canto e piano a Parigi. Sin dalla più tenera età venne incoraggiata a scrivere, prendendo esempio dalle opere di Mary Louisa Molesworth, Edith Nesbit e Lewis Carroll. Scrisse la sua prima poesia, intitolata The cowslip, all’età di dieci anni. Nel 1910, a causa della malattia della madre, si recò con lei in Egitto ed elaborò i suoi primi romanzi ambientati proprio a Il Cairo, tra questi ritroviamo anche Snow Upon the Desert.

Eppure, nonostante i suoi inizi precoci, fu solo durante la Prima Guerra Mondiale, quando prestò servizio come infermiera volontaria -dove venne a contatto con una colonia di rifugiati belgi e spronata dalla sorella maggiore (Margaret Miller) a scrivere un romanzo poliziesco simile a quelli che lei stessa trovava nei comodini dei suoi pazienti- che dalle sue piccole cellule grigie venne partorito un ometto di origine belga sempre molto signorile, alto meno di un metro e sessanta, con la testa a forma di uovo, un paio di baffi rigidi e un po’ zoppicante. Il nome a cui risponde questa figura, probabilmente influenzata dalla passione adulta nei confronti di Wilkie Collins (con la sua La donna in bianco) e Sir Arthur Conan Doyle (con il suo celebre Uno studio in rosso), è quello di Hercule Poirot: una sorta di Socrate del ‘900 che non rispecchia lo stereotipo dell’uomo bello e buono; eppure, nonostante l’aspetto, la sua mente e le sue piccole cellule grigie diventano ben presto le più ricercate e amate d’Inghilterra per la risoluzione di sparizioni, omicidi e dei casi più disparati. Non va dimenticato che nello stesso periodo, o meglio poco prima dell’inizio del conflitto mondiale, Agatha conobbe Archie Christie che divenne suo marito alla Vigilia di Natale del 1914. Sebbene il primo romanzo fosse concluso da anni, venne pubblicato esclusivamente nel 1920 con il titolo di Poirot a Styles Court, dando così inizio ad una serie di romanzi e di racconti che entrarono presto nel cuore di milioni -miliardi contando i posteri- di persone.

Alla fine dell’agosto del 1919 Agatha partorì la sua prima figlia, Rosalind Margaret. Qualche anno dopo, grazie all’impiego di Archie come promotore dell'Esposizione dell'Impero Britannico, la coppia lasciò la figlia Rosalind con la madre e la sorella della scrittrice e intraprese una serie di viaggi alla scoperta del Sudafrica, dell’Australia, della Nuova Zelanda e delle Hawaii. Se da un lato fu un viaggio estremamente formativo, dall’altro fu anche particolarmente sofferto: in questo periodo Archie conobbe e si innamorò di Nancy Neele. Dopo poco tempo, verso la fine del 1926, chiese ad Agatha il divorzio. Da questo evento partì la curiosa sparizione della scrittrice, divenuta ormai celebre, per circa dieci giorni. La sua auto venne ritrovata in un dirupo con dei documenti scaduti e di lei non si seppe nulla se non all’undicesimo giorno, quando venne riconosciuta come ospite di un hotel, registrata come Tressa Neele (stesso cognome dell’amante del marito). Nella sua autobiografia non parlò mai dell’accaduto e diversi medici le diagnosticarono amnesia; per lei fu un anno abbastanza traumatico e stressante caratterizzato dalla scomparsa della madre, la scoperta del tradimento del marito e la grossa mole di lavoro letterario. 

Nel 1928 i coniugi divorziarono (Archie si risposò subito con Nancy Neele). Agatha in quello stesso anno lasciò l’Inghilterra per recarsi ad Istanbul e raggiungere, attraverso il celebre Orient Express, Baghdad (attuale Iraq) -da questo viaggio nacque proprio uno dei suoi più celebri romanzi, Assassinio sull’Orient Express.

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Dara-The Ephesus of Mesopotamia

 Dopo aver visitato Baghdad, accompagnata dai coniugi Wooley, si recò a Ur (vicino a Nassiria, più a sud di Baghdad). Ur, situata vicino all’antica foce del Tigri e dell’Eufrate (Mesopotamia del sud), è stata ed è attualmente un’area importantissima dal punto di vista archeologico e storico. Qui vennero ritrovati moltissimi reperti, provenienti soprattutto da più di 1850 tombe, quali vasellame, armi, monili in metalli preziosi e strumenti musicali ampiamente decorati. Inoltre, la zona si caratterizza per la presenza delle rovine di un’imponente Ziqqurat (di circa 21 metri) e di un tempio dedicato a Nanna (mitologia sumera e poi babilonese), anche chiamato Sin o divina falce di luna, era la divinità protettrice della luna, del ciclo lunare e mestruale e dei pastori, veniva anche designata come padre degli dei. Era raffigurata, almeno nei sigilli cilindrici, come un vecchio con la barba di lapislazzuli accompagnato da una mezza luna; infatti, simboli principali di Nanna e della sua progenie erano la mezza luna, la stella ad otto punte e il disco solare (Triade sacra). Il nome del Monte Sinai deriva proprio da questa divinità: monte di Sin o territorio di Sin, una delle sedi principali del culto di questo dio. Eppure, Ur è importantissima anche dal punto di vista storico: secondo alcuni studiosi, fu la più grande città del mondo dal 2030 a.C. al 1980 a.C. con una popolazione media di 65.000 abitanti; inoltre, viene nominata più volte nel Libro della Genesi come luogo di nascita del patriarca Abramo.

Così, Agatha frequentò questi luoghi e poté prendere parte alle scoperte effettuate in quegli anni -Wooley, archeologo molto famoso, è noto per aver ricondotto ed interpretato lo strato di fango alluvionale situato nella profondità del terreno all’origine del mito del diluvio sumerico (oggi noto come Il diluvio Universale grazie al racconto biblico dell’Arca di Noè).

Il diluvio, Gustave Doré


Venne invitata a tornare nel 1930 e in questo periodo conobbe Max Mallowan e consolidò il suo amore per la storia dell’antichità (vedasi etimologia di archeologia). Agatha afferma di essere rimasta affascinata dall’uomo di circa 15 anni più giovane e di lui dice: “thin, dark young man” who was “very quiet – he seldom spoke, but was perceptive to everything that was required of him.”. Di conseguenza, quando Katherine Wooley propose a Max Mallowan di accompagnare Agatha in una visita della zona, tra i due scoccò subito la scintilla e alla fine dell’anno iniziarono un lungo e felice matrimonio. Nessuno può affermare con esattezza cos’abbia fatto nascere in lei l’amore per quei luoghi e per la professione di archeologo, se una particolare predisposizione in un particolare periodo di vita o se la felicità di avere accanto la persona amata; ma, al di là di questo, tutti possiamo beneficiare di quest’amore per il sapere che traspare in moltissime sue opere, quali Poirot sul Nilo (prese spunto dagli scavi del tempio di Abu Simbel), Non c’è più scampo (Medio Oriente), La domatrice (Gerusalemme e Petra), Il mondo è in pericolo (Baghdad) e molti altri. Nel 1970 scrisse anche un romanzo dedicato a Akhenaten, faraone 'eretico', da cui si possono evincere le sue scrupolose ricerche e ampie conoscenze -il suo amore per l'antico Egitto nacque sin dalla fanciullezza.

Infatti, Agatha visse per i successivi venti e più anni insieme al marito vicino a zone di scavo, spesso aiutando nella pulizia e nella riparazione di manufatti, nello scatto di fotografie per la catalogazione degli oggetti (esiste una mostra che raggruppa tutti i suoi scatti) e in molto altro. Inoltre, le è stata accreditata la tecnica di conservazione e pulizia degli avori di 3.000 anni, ritravati tra Mallowan e Nimrud in Iraq, grazie all'uso della sua crema per il viso e di un bastone arancione.

Vi lascio con le parole della sua autobiografia: 

“The lure of the past came up to grab me. To see a dagger slowly appearing, with its gold glint, through the sand was romantic. The carefulness of lifting pots and objects from the soil filled me with a longing to be an archaeologist myself.” 

A. Christie, An Autobiography (London, 1981), p. 389

Lo scopo di questo articolo è quello di farvi conoscere e apprezzare una delle sue più grandi passioni. Buona lettura.

mercoledì 26 agosto 2020

Poirot

 Oggi ha inizio il blog tour organizzato da @attimidiprosablog sul volume Poirot – Tutti i racconti, edito @oscarvault e dal costo di 25€. Non posso non ringraziare Dalila per la sua impeccabile organizzazione dell’evento e la Oscar Vault per averci permesso di leggere in anteprima il volume. Nella foto a seguire troverete le date associate ai vari argomenti trattati e i blog partecipanti. Io avrò la possibilità di parlare sia della vita di Agatha Christie (domani, 27/08), concentrandomi sul rapporto archeologia e scrittura, che del ruolo della pipa nell’immaginario collettivo (30/08). Mi auguro vi incuriosisca e vi venga voglia di collezionare questo originalissimo volume.



Un giorno tutti diranno di essere stati contro

 “Oggi ho visto il filmato di un uomo che baciava il piede del figlio mentre lo seppelliva. Il corpo era talmente dilaniato dai missili che ...