mercoledì 24 marzo 2021

La morte di Ivan Il’ič

 “D’un tratto, una qualche forza sconosciuta l’aveva colpito nel petto, nel fianco, gli aveva fatto mancare il respiro ancora di più, l’aveva fatto sprofondare nel buco e là, alla fine del buco, qualcosa aveva brillato. Gli era successo quel che succede quando si viaggia nel vagone di un treno, quando si pensa di andare avanti e invece si va indietro, e d’un tratto ti accorgi della direzione del viaggio. “Sì, è stato tutto sbagliato,” si era detto, “ma non fa niente. Si può, si può fare qualcosa di giusto! Ma cosa?””

La morte di Ivan Il’ič, Lev Tolstoj

 

Edito Feltrinelli

Costo 8€

 

Cosa fa più paura: ritrovarsi ad assaporare le ultime gocce della propria concentrata esistenza, realizzando di non aver colto il senso della vita, o non avere nessuno accanto che ci sposti le tende dalla finestra e ci consenta di osservare l’ultimo tramonto, l’ultimo volo instancabile di un moscerino indaffarato – al cui confronto siamo quasi immortali – e l’ultima foglia caduta dal nostro albero del cuore?

Ma alla fine, qual è davvero il senso della vita? Come possiamo affermare di aver sbagliato nel viverla? Soprattutto negli ultimi istanti, non dovremmo perdonare noi stessi e accettare i nostri errori, la nostra cecità e la nostra confusione? Come potevamo prevedere ciò che ora ritroviamo ai piedi del nostro letto? Perdono, sia per ciò che abbiamo stretto fin troppo che per ciò che abbiamo dimenticato. Così, ho apprezzato Ivan Il’ič soprattutto nella seconda metà dell’opera, quando capisce di essere tornato bambino, di quanto amore e attenzioni abbia bisogno un essere umano e di quanto la psiche governi il nostro corpo: “Il dolore non diminuiva; ma Ivan Il’ič faceva degli sforzi su se stesso per costringersi a pensare di star meglio. E riusciva, perfino, a ingannare se stesso, se non c’era niente che lo turbava.”. Ivan Il’ič – in queste pagine - scopre di essere fragile, di non avere più le forze di proteggersi dagli assalti esterni, eppure ritrova conforto e sostegno nella figura di Gerasim e, forse, questo alla fine lo salva e gli consente di lasciare questo mondo in pace.

Mi auguro vi faccia riflettere. Ringrazio @lettura.nostalgica per il GdL da lui creato. Buona lettura.




martedì 23 marzo 2021

Il serpente

 “Pensa com’è quando fa giorno dopo una breve notte d’estate. Qualcuno immerge la scopa nell’acido cloridrico e spazza via le stelle dalla volta del cielo, lucida e tesa come un elmetto. Qualcuno lancia nello spazio piccole gocce di inchiostro rosso, che si spargono come se lassù si imbattessero in un foglio di carta assorbente. E viene la luce, ed è come se la notte si liberasse di uno strato di ragnatele: ragnatele spesse e nere che è facile afferrare, mentre quelle grigie e sottili sono ancora ostinatamente sospese sopra la terra, ed è per questo che chi cammina nel bosco, da nord a sud, crede che sia ancora notte finché non vede luccicare l’erica davanti a sé. Accade così all’improvviso, così in fretta che forse, sulle prime, pensa che sia lo svolazzare di una farfalla dalle ali gialle, lì nella radura, e magari si mette a correre nell’erica bagnata per catturarla. Poi però si accorge dell’errore e, quando si volta, il cielo dietro di lui, dal limitare del bosco fin su in alto per chilometri e chilometri, arde di un rosso così intenso da far temere che possa crollare per il calore. E invece fa freddo, è l’ora più fredda del giorno e anche il momento più limpido, quando le ultime ragnatele della notte vengono spazzate via dalle scope d’acciaio del mattino.”

Il serpente, Stig Dagerman

 

Edito Iperborea

Costo 18

 

Il serpente attraversa lentamente queste 297 pagine, esponendo le sue squame alla luce calda, rovente e asfissiante del sole che si abbatte su un campo d’addestramento militare in Svezia. La sua visione lascia un segno indelebile sugli animi dei presenti, portandoli ad abbandonare gran parte dei costrutti sociali più disparati e ad accogliere l’istinto, la pancia e l’emotività: “[…] lei si sentì messa a nudo di fronte a se stessa, […], lasciò che tutte le sensazioni che la sopraffacevano si prendessero cura di lei e la guidassero a quella sottilissima linea di confine dove i prati della ragione e del pensiero si mutavano nella palude dei sentimenti, e oltrepassando quel confine provò un piccolo, folle senso di trionfo e pensò: «Me ne infischio.»”. Come posso descrivere, senza incorrere in errore, il senso di abbandono con cui questi personaggi provano a sconfiggere il senso di alienazione e mancanza che la vita li ha costretti ad ingoiare? Come posso descrivere, senza incorrere in errore, la strana ma piacevole architettura dell’opera? Come spiegare, soprattutto da ciò che emerge nel primo racconto, l’umanità smascherata nella sua bestialità e nella sua costante lotta tra ragione ed istinto? Qui c’è tutto e molto di più: c’è la paura di un essere strisciante (ma sarà davvero il serpente?), il senso di liberazione che si prova allontanando chi ci disprezza, il sentirsi inadeguati, il sentirsi delle macchine e nient’altro e, soprattutto, il terrore di doversi guardare allo specchio senza salvagente o altro aiuto.

In quest’opera Dagerman ci costringe a chiederci quanto sarebbe semplice essere delle macchine, convincendoci, però, ad amare la nostra essenza umana: a quanti mancherebbe osservare il cielo e ritrovare in esso i nostri più intimi pensieri?

Buona lettura.



venerdì 12 marzo 2021

Tess dei D'Urberville

 “L’unico esercizio fisico che Tess si concedeva a quell’epoca aveva luogo dopo il tramonto; solo allora, fuori nei boschi, le sembrava d’essere meno sola; sapeva come cogliere con precisione quell’attimo della sera, quando la luce e l’oscurità si compensano così equamente che le certezze del giorno e i dubbi della notte si neutralizzano, lasciando un’assoluta libertà mentale. È allora che il difficile impegno d’essere vivi si riduce al minimo. Non temeva le ombre, il suo unico pensiero sembrava quello di evitare l’umanità, o meglio, quella fredda concrescenza chiamata mondo, che, così terribile nella massa, è così meschina, anzi penosa, nelle sue unità.”

Tess dei D’Urberville, Thomas Hardy

 

Edito Rizzoli – BUR

Costo 10

 

In queste pagine, tra i boschi e i campi del Wessex, si erge solitaria - ma resistente - una figura femminile di grande forza, coraggio e determinazione: Tess D’Urberville. Ad affiancarla, sin dai primi capitoli, ritroviamo una famiglia numerosa, sbadata e, soprattutto, con a capo due figure genitoriali particolarmente negligenti: così, i ruoli si invertono e chi dovrebbe educare e lavorare, demanda ai più piccoli e ingenui i compiti più gravosi. Non mentirò: probabilmente, ho sofferto più della stessa Tess nell’osservare l’incuranza e la mancanza di protezione da parte di Jack e Joan; non penso possa esistere un qualcosa di così terribile e dilaniante come un’abitazione senza tetto e pericolante (perché un nucleo familiare in cui mancano dei punti di riferimento è come una casa senza fondamenta, senza tetto e priva di sicurezza) e un’esistenza innocente rovinata dalla mancanza di attenzione e avvertimenti. Così, Tess, che appare immediatamente come un essere umano estremamente sensibile e buono, inizia il suo percorso di vita in questo ambiente contorto e, spesso, inadeguato, che la porterà a provare uno dei dolori più grandi che un’esistenza possa affrontare: la mancanza di libertà, il diventare oggetto del desiderio altrui e il subire un estenuante e pericoloso processo di deumanizzazione. Il frutto di questa esperienza mortificante prenderà il nome di Sorrow, Sofferenza, e le pagine che descrivono la sua nascita e il suo breve percorso di vita, penso siano le più commoventi e intense di tutta l’opera. Grazie a Sorrow, Tess diventa consapevole di quanto la vita sia complessa, di come l’amore possa nascere indipendentemente dal contesto, ma – soprattutto – di come la vita resista anche agli assalti più duri e spietati. Dopo il riconoscimento (soprattutto dell’innocenza che c’è in lui), l’accettazione, il battesimo e il superamento della perdita (di Sorrow), Tess torna lentamente a vivere: realizza quanto la vergogna sia relativa e ritrova speranza nel futuro lontano e dimentico del passato.

Non so cosa mi abbia colpita maggiormente, se la sua capacità di rialzarsi nei momenti più dolorosi o se la sua profonda sintonia con la natura (lei è un vero e proprio spirito della natura), traendo da essa ispirazione e conforto, in ogni caso, sono rimasta sbalordita davanti a questo piccolo concentrato di vita e tenacia. Tess giunge così a Talbothays più tranquilla e più saggia, eppure la vita – nonostante ciò che ha affrontato in precedenza – ha ancora molto da insegnarle. Thomas Hardy disseziona e analizza meticolosamente il dolore, l’angoscia e la vergogna che accompagnano lo stupro e il tentativo successivo di ricostruire la propria dimora ridotta in cenere. Tess non ha colpe, ciononostante realizza quanto questo abbia poco significato agli occhi dell’altro, perché l’altro – perfettamente incarnato da Angel – si erge a giudice e, proprio come nella favola Le due bisacce di Esopo, vede esclusivamente i difetti altrui, ignorando i propri. Non ho amato nessuna figura maschile presente nell’opera, ho apprezzato Angel esclusivamente nella parte conclusiva, ma riconosco quanto possa essere potente l’idealizzazione della persona amata e, per questo motivo, concedo ad Angel il beneficio del dubbio. In conclusione, trovo sia un’opera sublime – anche se non goduta particolarmente a causa della traduzione e del ritrovamento di diversi errori. Vi auguro buona lettura.



mercoledì 3 marzo 2021

I salici

 “Osservai il deserto di acque selvagge, guardai i salici sussurranti, sentii i colpi incessanti del vento instancabile; ognuno di loro, a modo suo, risvegliò in me quella sensazione di strano disagio. Ma i salici in modo particolare, che continuavano a chiacchierare e parlare tra di loro, ridevano un po’, poi stridevano, a volte sospiravano – ma il motivo per cui facevano tutte queste cose apparteneva al segreto della vita e della pianura che abitavano. Era alieno al mondo che conoscevo io, o a quello selvaggio ma gentile degli elementi. Mi facevano pensare a degli esseri di un altro livello di vita, un’altra evoluzione, forse, che discutevano di un mistero di cui solo loro erano a conoscenza. Li guardavo muoversi tutti insieme, scuotere le teste folte, roteare miriadi di foglie anche quando non c’era vento. Si muovevano di propria volontà, come se fossero vivi, e toccavano, in qualche modo incomprensibile, il mio acuto senso di terrore.”

I salici, Algernon Henry Blackwood

 

Edito ABEditore

Costo * ringrazio infinitamente @attimidiprosablog per questo gesto inaspettato e profondamente gradito

 

I salici è un racconto che vede due compagni di viaggio (più nello specifico, di canoa) perdersi tra le atmosfere suggestive, affascinanti e – al tempo stesso – cariche di suspence e di inquietudine, create dal connubio tra le placide acque del Danubio e la malleabile terra su cui poggia un vasto mare di basse siepi di salici: la zona in cui si snodano le vicende è contrassegnata sulla mappa dalla parola Sumpfe, ovvero paludi. Il solo accenno al luogo che i due compagni si trovano ad attraversare, può far capire quali scenari osserveremo in queste 141 pagine. Eppure, risulta comunque difficile spiegare quanto sia stato intrigante, elettrizzante e coinvolgente ritrovarsi accampati in un isolotto circondato da acqua stagnante, dal sole calante e dalla luna crescente e da una miriade di spettatori, attenti ad ogni nostro gesto, ad ogni nostro respiro. In aggiunta, ciò che più mi ha lasciata appagata da questa lettura, sono state alcune riflessioni – fatte con molta cautela – che, sebbene elaborate in una situazione estrema, possono essere applicate alla vita di tutti giorni, in particolar modo alle nostre paure di tutti i giorni e ai nostri traumi: “«Ma hai ragione su una cosa,» aggiunse, prima di far cadere l’argomento «ovvero che saremmo più saggi a non parlarne, o addirittura a non pensarci, perché quello che uno pensa trova espressione nelle parole, e quello che uno dice poi accade.»”. Quante volte abbiamo cercato di eliminare un ricordo o una sensazione evitando di parlarne? Davvero le nostre parole e i nostri pensieri hanno un potere così grande? Dobbiamo davvero stare attenti a ciò che desideriamo o pensiamo, perché rischia di avverarsi? Concludo menzionando i bellissimi disegni che accompagnano la lettura, rendendo le parole ancor più suggestive, e la curatissima traduzione che rende questo viaggio ancora più intenso. Mi auguro lo leggiate, buona lettura.




mercoledì 10 febbraio 2021

Il cielo di pietra

 “Ah, amore mio. Un’apocalisse è una cosa relativa, non è vero? Quando la terra va in pezzi, è un disastro per la vita che dipende da lei… ma è insignificante per Padre Terra. Quando un uomo muore, dovrebbe essere sconvolgente per una bambina che un tempo lo chiamava padre, ma diventa come niente se quella bambina è stata chiamata mostro così tante volte da finire per accettare quell’etichetta. Quando uno schiavo si ribella, non significa molto per le persone che ne leggono in seguito. Solo esili parole su esile carta consumata dall’abrasione della Storia. («Così eravate schiavi, e allora?» sussurrano. Come se non fosse niente.) Ma per le persone che vivono sulla loro pelle una rivolta di schiavi, sia per chi dà per scontato il proprio dominio fino a essere travolto senza preavviso, sia per chi guarda bruciare il mondo piuttosto che sopportare un momento di più vissuto al “proprio posto”…

[…]

Se una com costruisce su una linea di faglia, incolpi le sue mura quando inevitabilmente crollano, schiacciando le persone all’interno? No, incolpi chiunque sia stato così sciocco da pensare di poter sfidare per sempre le leggi della natura. Ecco, alcuni mondi sono costruiti su una linea di faglia di dolore, tenuti in piedi da incubi. Non recriminare quando quei mondi crollano. Infuriati perché sono stati creati con un destino segnato sin dall’inizio.”

Il cielo di pietra, N. K. Jemisin

 

Edito @oscarvault

Costo 15€

 

L’Immoto è ciò che resta all’uomo: è rifugio e supplizio, terra e fiamme (Terra infame), cenere e piogge acide. In particolare, l’Immoto e le sue quinte stagioni sono la punizione che Padre Terra ha assegnato all’umanità per non aver rispettato la vita, per aver calpestato con ipocrisia cadaveri innocenti, per aver perforato il mantello terrestre ed aver maneggiato l’essenza vitale con noncuranza e disprezzo. L’Immoto e le sue quinte stagioni sono ciò che una civiltà assetata di potere e pregna di indifferenza merita. In fin dei conti, Padre Terra è stato buono, è stato clemente; anche se malnutrita, stanca e impaurita, l’umanità continua a calpestare il suolo terrestre e a respirare: “A quanti sono sopravvissuti. Respirate. Così. Un’altra volta. Bene. State bene. E anche se non state bene, siete vivi. Questa è una vittoria”. In queste pagine, ogni scenario sembra così lontano, eppure così vicino. Il percorso, che ha inizio con La quinta stagione (volume 1) e si conclude con Il cielo di pietra (volume 3), ha come obiettivo quello di toccare e risvegliare la sensibilità di chi lo legge perché ci rende consapevoli di quanto ogni cosa che ci circonda possa soffrire ed essere viva. È proprio questo il punto, non possiamo pretendere che il nostro modo di sentire sia unico, inimitabile, giusto e vero; di conseguenza, non possiamo pretendere che ciò che non sente o vive come noi sia inesistente, morto, inadeguato o limitato. Ecco che N. K. Jemisin ci stimola e ci mostra tanti altri modi di essere vivi, di sentire (sensire), di comunicare e di pensare. Questo viaggio attraverso le strade distrutte e pericolose dell’Immoto mi ha stregata e conquistata. Ho trovato tutto perfetto e geniale: dal tipo di narrazione ai dialoghi, all’intreccio e ai personaggi. Ho amato il rimanere sulle spine e farmi consumare dalla curiosità sino alle ultime pagine; questa trilogia è così, esattamente come i personaggi che prendono vita tra le sue pagine: oscura, intricata e, contemporaneamente, magnifica. Mi è piaciuto rimanere sorpresa e confusa sino alla fine, ma ancor di più vedere la crescita di Damaya, Syenite, Essun e Nassun. Ho respirato precarietà, carenza di cibo, dolore, ingiustizia, sacrificio ma anche tanto altro. Ho capito quanto è difficile essere madri, quanto spesso il controllo sia inutile e quanto bisogno d’amore e accettazione c’è in esseri così piccoli. In conclusione, è stato bello e paradossalmente non sento tristezza nell’averlo concluso (non è vero, un po' sì): ho già intenzione di rileggere la trilogia dall’inizio. Mi auguro che questa trilogia dell'ossido vi piaccia, buona lettura.

(foto mia)


lunedì 8 febbraio 2021

L'ottava vita (per Brilka)

 “Devo queste righe a un’infinità di lacrime versate, devo queste righe a me stessa, quella che lasciò la patria per trovarsi e tuttavia si perse sempre di più; ma soprattutto devo queste righe a te, Brilka.

Le devo a te perché tu meriti l’ottava vita. Perché si dice che il numero otto equivalga all’eternità, al fiume che ritorna. Ti dono il mio otto.

Ci lega un secolo. Un secolo rosso. Per sempre e otto. È il tuo turno, Brilka. Io ho adottato il tuo cuore. Il mio l’ho gettato via. Accetta il mio otto.

Sei la bambina magica. Lo sei. Passa attraverso il cielo e il caos, attraverso tutti noi, attraverso queste righe, attraverso il mondo degli spiriti e il mondo reale, attraverso il capovolgimento dell’amore e della fede, accorcia i centimetri che ci hanno sempre separate dalla felicità, passa attraverso il destino che non era tale.

Passa attraverso me e te.

Vivi tutte le guerre. Supera tutti i confini. Io ti dedico tutti gli dei e tutti i rosari, tutti i roghi, tutte le speranze decapitate, tutte le storie. Passaci attraverso. Perché hai i mezzi per farlo, Brilka. L’otto, pensaci. In questo numero tutti noi saremo legati l’uno all’altro e potremo stare in ascolto l’uno dell’altro, per tutti i secoli.

Tu potrai farlo.

Sii tutto quello che noi eravamo e non eravamo. Sii un tenente, una funambola, un marinaio, un’attrice, un regista, una pianista, un’amante, una madre, un’infermiera, una scrittrice, sii rossa e bianco o blu, sii caos e cielo e sii loro e io e non essere tutto questo, e soprattutto danza infiniti pas de deux.

Attraversa questa storia e lasciatela alle spalle.”

L’ottava vita (per Brilka), Nino Haratischwili

 

Edito Marsilio Editori

Costo 24

 

Brilka questo romanzo, quest’inno alla vita, alla libertà e all’amore è dedicato interamente a te; a te che sei l’antidoto, il risultato di un secolo di storia che fa rabbrividire e andare alla ricerca di un riparo per il cuore, per l’anima. In queste pagine ho imparato a conoscerti, più di quanto mi aspettassi, perché so cosa c’è dietro, so quanto dolore ti ha preceduta, so quanto amore incondizionato ti ha creata e so quanta forza ti ha cullata. Non mi sarei mai aspettata un viaggio così ammaliante, profondo e incredibile, eppure eccomi qui, eccoci qui. Dietro le tue spalle, i tuoi capelli ribelli e la tua carnagione diafana ti aspettavi tutto questo? Nell’istante che intercorre tra un pas de deux e una piroetta, cosa pensi? Cosa senti? Chi sei? Senti il profumo di Stasia che durante la guerra, in una città sconosciuta e affamata, trovava conforto esclusivamente nella danza? Senti la forza di Christine che per proteggere la sua famiglia ha dovuto mantenere il silenzio? Senti la nostalgia di casa di Kitty? L'amarezza di Kostja? L'inadeguatezza e la voglia di libertà di Elene? Cosa provi Brilka ora che il tuo passato e la tua storia sono stati messi a nudo e puoi immergerti negli animi che ti hanno preceduta? Io sono emozionata, commossa all’inverosimile e persa tra tutte le vite che in queste 1129 pagine hanno alzato lo sguardo verso un cielo così simile e, allo stesso tempo, così diverso. Sono nata in un periodo di pace, non so cosa voglia dire morire per un pensiero non in linea con il regime politico, per un film che nessuno ha visto ma di cui tutti parlano o per cercare di preservare l’amore della nostra vita da uomini potenti e mostruosi, ma so quanto sia importante conoscere chi ci ha preceduti, rendere loro omaggio e, al tempo stesso, cercare di non commettere i loro stessi errori. Dai nostri errori si impara, ma dalla conoscenza degli sbagli altrui si capisce come accettarsi, come non perdersi in un bicchier d’acqua e come lottare per i propri bisogni. La storia insegna, Brilka, ma le vite che l’hanno vissuta insegnano ancora di più. Così, forti di questa nuova consapevolezza, siamo pronti a perderci tra i sogni del fabbricante di cioccolato, colui che ha iniziato questa storia nel modo più dolce e pericoloso possibile: grazie ad una tazza di cioccolata fusa, calda, irresistibile e inebriante. Una cioccolata che è un po’ il simbolo del secolo che Stasia, Christine, Sopio, Kitty, Andro, Kostja, Nana, Elene, Miqa, Daria, Niza, Miro e, infine, Brilka hanno attraversato: dolce e amara al tempo stesso. È difficile descrivere l’essenza di queste pagine, so solo che catturano, cullano, fanno male e ti accarezzano. È, in alcuni punti, un pugno allo stomaco necessario. Mi auguro lo leggiate, vi auguro una buona lettura.

(foto mia)


venerdì 5 febbraio 2021

La fine del mondo e il paese delle meraviglie

 “ – Anche tu non riesci a capire bene cosa sia, il cuore?

- Ogni tanto mi succede, - dissi. – Ci sono volte in cui riesco a capirlo solo dopo che è passato molto tempo, altre volte è troppo tardi. Nelle maggior parte dei casi siamo costretti a prendere delle decisioni e ad agire quando non siamo ancora sicuri dei nostri sentimenti, il che disorienta noi stessi e gli altri.

- A me sembra una cosa del tutto imperfetta, il cuore, - disse lei sorridendo.

Tirai fuori le mani dalle tasche e le guardai alla luce della luna. Imbiancate dal chiarore lunare sembravano statue proporzionate a un mondo in miniatura, che avessero perso la loro destinazione.

- Lo penso anch’io, - dissi. – È una cosa estremamente imperfetta. Però lascia delle tracce. E noi possiamo ritrovarle, seguirle. Come si seguono le impronte lasciate sulla neve.

- E portano da qualche parte, quelle tracce?

- A noi stessi, - risposi. – Così funziona il cuore. Se non ci fosse il cuore, si vagherebbe senza fine.”

La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Murakami Haruki

 

Edito Einauidi

Costo 15

 

Questo libro mi ha lasciata particolarmente spiazzata e con pareri e sentimenti piuttosto contrastanti. Se da un lato ho amato l’intreccio, l’idea di base, alcuni paesaggi proposti e alcune conversazioni, dall’altro non sono riuscita ad entrare completamente nella storia, a partecipare pienamente alle vicende e all’evolversi della situazione. Non so di chi sia la colpa, forse non era il periodo giusto o quello che cercavo in quel momento, forse io e il protagonista siamo troppo distanti per poterci comprendere, perciò non posso dirmi pienamente soddisfatta della lettura; ciononostante, ci sono comunque degli aspetti positivi, ovvero: i continui richiami al cuore, alla necessità che ogni essere umano ha di preservare quel muscolo ingarbugliato che ha nel petto, al ruolo dei limiti mentali che, una volta sbaragliati, ci consentono di vivere in eterno e all’importanza della nostra coscienza. È stato un viaggio nelle profondità della terra e dell’animo umano, che mi ha consentito – aspetto molto positivo - di perdermi nei tunnel sotterranei dell’inconscio, dell’invisibile e di osservare come, effettivamente, sia insito nella nostra esistenza il dualismo conscio-inconscio: dove viviamo la notte?

C’è un altro estratto che mi ha affascinato ed è il seguente: “ – Non bisogna lasciare che la fatica entri nel cuore, - disse. – Me lo ripeteva sempre mia madre. Può darsi che la fatica controlli il tuo corpo, ma fai del tuo cuore una cosa tua.

- Aveva ragione.

- Però, a essere sincera, io non lo so bene cosa sia il cuore. Che significato esatto abbia, in che modo sia meglio usarlo… per me è soltanto una parola.

- Il cuore non è qualcosa da usare, - risposi. – Semplicemente esiste. Come il vento. Basta che lei ne senta i movimenti.”

In conclusione, vale la pena leggerlo solamente per alcuni dialoghi estremamente toccanti, interessanti e acuti. Mi auguro vi piaccia e vi trascini in una fine del mondo per cui valga la pena lottare.




Un giorno tutti diranno di essere stati contro

 “Oggi ho visto il filmato di un uomo che baciava il piede del figlio mentre lo seppelliva. Il corpo era talmente dilaniato dai missili che ...