mercoledì 10 febbraio 2021

Il cielo di pietra

 “Ah, amore mio. Un’apocalisse è una cosa relativa, non è vero? Quando la terra va in pezzi, è un disastro per la vita che dipende da lei… ma è insignificante per Padre Terra. Quando un uomo muore, dovrebbe essere sconvolgente per una bambina che un tempo lo chiamava padre, ma diventa come niente se quella bambina è stata chiamata mostro così tante volte da finire per accettare quell’etichetta. Quando uno schiavo si ribella, non significa molto per le persone che ne leggono in seguito. Solo esili parole su esile carta consumata dall’abrasione della Storia. («Così eravate schiavi, e allora?» sussurrano. Come se non fosse niente.) Ma per le persone che vivono sulla loro pelle una rivolta di schiavi, sia per chi dà per scontato il proprio dominio fino a essere travolto senza preavviso, sia per chi guarda bruciare il mondo piuttosto che sopportare un momento di più vissuto al “proprio posto”…

[…]

Se una com costruisce su una linea di faglia, incolpi le sue mura quando inevitabilmente crollano, schiacciando le persone all’interno? No, incolpi chiunque sia stato così sciocco da pensare di poter sfidare per sempre le leggi della natura. Ecco, alcuni mondi sono costruiti su una linea di faglia di dolore, tenuti in piedi da incubi. Non recriminare quando quei mondi crollano. Infuriati perché sono stati creati con un destino segnato sin dall’inizio.”

Il cielo di pietra, N. K. Jemisin

 

Edito @oscarvault

Costo 15€

 

L’Immoto è ciò che resta all’uomo: è rifugio e supplizio, terra e fiamme (Terra infame), cenere e piogge acide. In particolare, l’Immoto e le sue quinte stagioni sono la punizione che Padre Terra ha assegnato all’umanità per non aver rispettato la vita, per aver calpestato con ipocrisia cadaveri innocenti, per aver perforato il mantello terrestre ed aver maneggiato l’essenza vitale con noncuranza e disprezzo. L’Immoto e le sue quinte stagioni sono ciò che una civiltà assetata di potere e pregna di indifferenza merita. In fin dei conti, Padre Terra è stato buono, è stato clemente; anche se malnutrita, stanca e impaurita, l’umanità continua a calpestare il suolo terrestre e a respirare: “A quanti sono sopravvissuti. Respirate. Così. Un’altra volta. Bene. State bene. E anche se non state bene, siete vivi. Questa è una vittoria”. In queste pagine, ogni scenario sembra così lontano, eppure così vicino. Il percorso, che ha inizio con La quinta stagione (volume 1) e si conclude con Il cielo di pietra (volume 3), ha come obiettivo quello di toccare e risvegliare la sensibilità di chi lo legge perché ci rende consapevoli di quanto ogni cosa che ci circonda possa soffrire ed essere viva. È proprio questo il punto, non possiamo pretendere che il nostro modo di sentire sia unico, inimitabile, giusto e vero; di conseguenza, non possiamo pretendere che ciò che non sente o vive come noi sia inesistente, morto, inadeguato o limitato. Ecco che N. K. Jemisin ci stimola e ci mostra tanti altri modi di essere vivi, di sentire (sensire), di comunicare e di pensare. Questo viaggio attraverso le strade distrutte e pericolose dell’Immoto mi ha stregata e conquistata. Ho trovato tutto perfetto e geniale: dal tipo di narrazione ai dialoghi, all’intreccio e ai personaggi. Ho amato il rimanere sulle spine e farmi consumare dalla curiosità sino alle ultime pagine; questa trilogia è così, esattamente come i personaggi che prendono vita tra le sue pagine: oscura, intricata e, contemporaneamente, magnifica. Mi è piaciuto rimanere sorpresa e confusa sino alla fine, ma ancor di più vedere la crescita di Damaya, Syenite, Essun e Nassun. Ho respirato precarietà, carenza di cibo, dolore, ingiustizia, sacrificio ma anche tanto altro. Ho capito quanto è difficile essere madri, quanto spesso il controllo sia inutile e quanto bisogno d’amore e accettazione c’è in esseri così piccoli. In conclusione, è stato bello e paradossalmente non sento tristezza nell’averlo concluso (non è vero, un po' sì): ho già intenzione di rileggere la trilogia dall’inizio. Mi auguro che questa trilogia dell'ossido vi piaccia, buona lettura.

(foto mia)


lunedì 8 febbraio 2021

L'ottava vita (per Brilka)

 “Devo queste righe a un’infinità di lacrime versate, devo queste righe a me stessa, quella che lasciò la patria per trovarsi e tuttavia si perse sempre di più; ma soprattutto devo queste righe a te, Brilka.

Le devo a te perché tu meriti l’ottava vita. Perché si dice che il numero otto equivalga all’eternità, al fiume che ritorna. Ti dono il mio otto.

Ci lega un secolo. Un secolo rosso. Per sempre e otto. È il tuo turno, Brilka. Io ho adottato il tuo cuore. Il mio l’ho gettato via. Accetta il mio otto.

Sei la bambina magica. Lo sei. Passa attraverso il cielo e il caos, attraverso tutti noi, attraverso queste righe, attraverso il mondo degli spiriti e il mondo reale, attraverso il capovolgimento dell’amore e della fede, accorcia i centimetri che ci hanno sempre separate dalla felicità, passa attraverso il destino che non era tale.

Passa attraverso me e te.

Vivi tutte le guerre. Supera tutti i confini. Io ti dedico tutti gli dei e tutti i rosari, tutti i roghi, tutte le speranze decapitate, tutte le storie. Passaci attraverso. Perché hai i mezzi per farlo, Brilka. L’otto, pensaci. In questo numero tutti noi saremo legati l’uno all’altro e potremo stare in ascolto l’uno dell’altro, per tutti i secoli.

Tu potrai farlo.

Sii tutto quello che noi eravamo e non eravamo. Sii un tenente, una funambola, un marinaio, un’attrice, un regista, una pianista, un’amante, una madre, un’infermiera, una scrittrice, sii rossa e bianco o blu, sii caos e cielo e sii loro e io e non essere tutto questo, e soprattutto danza infiniti pas de deux.

Attraversa questa storia e lasciatela alle spalle.”

L’ottava vita (per Brilka), Nino Haratischwili

 

Edito Marsilio Editori

Costo 24

 

Brilka questo romanzo, quest’inno alla vita, alla libertà e all’amore è dedicato interamente a te; a te che sei l’antidoto, il risultato di un secolo di storia che fa rabbrividire e andare alla ricerca di un riparo per il cuore, per l’anima. In queste pagine ho imparato a conoscerti, più di quanto mi aspettassi, perché so cosa c’è dietro, so quanto dolore ti ha preceduta, so quanto amore incondizionato ti ha creata e so quanta forza ti ha cullata. Non mi sarei mai aspettata un viaggio così ammaliante, profondo e incredibile, eppure eccomi qui, eccoci qui. Dietro le tue spalle, i tuoi capelli ribelli e la tua carnagione diafana ti aspettavi tutto questo? Nell’istante che intercorre tra un pas de deux e una piroetta, cosa pensi? Cosa senti? Chi sei? Senti il profumo di Stasia che durante la guerra, in una città sconosciuta e affamata, trovava conforto esclusivamente nella danza? Senti la forza di Christine che per proteggere la sua famiglia ha dovuto mantenere il silenzio? Senti la nostalgia di casa di Kitty? L'amarezza di Kostja? L'inadeguatezza e la voglia di libertà di Elene? Cosa provi Brilka ora che il tuo passato e la tua storia sono stati messi a nudo e puoi immergerti negli animi che ti hanno preceduta? Io sono emozionata, commossa all’inverosimile e persa tra tutte le vite che in queste 1129 pagine hanno alzato lo sguardo verso un cielo così simile e, allo stesso tempo, così diverso. Sono nata in un periodo di pace, non so cosa voglia dire morire per un pensiero non in linea con il regime politico, per un film che nessuno ha visto ma di cui tutti parlano o per cercare di preservare l’amore della nostra vita da uomini potenti e mostruosi, ma so quanto sia importante conoscere chi ci ha preceduti, rendere loro omaggio e, al tempo stesso, cercare di non commettere i loro stessi errori. Dai nostri errori si impara, ma dalla conoscenza degli sbagli altrui si capisce come accettarsi, come non perdersi in un bicchier d’acqua e come lottare per i propri bisogni. La storia insegna, Brilka, ma le vite che l’hanno vissuta insegnano ancora di più. Così, forti di questa nuova consapevolezza, siamo pronti a perderci tra i sogni del fabbricante di cioccolato, colui che ha iniziato questa storia nel modo più dolce e pericoloso possibile: grazie ad una tazza di cioccolata fusa, calda, irresistibile e inebriante. Una cioccolata che è un po’ il simbolo del secolo che Stasia, Christine, Sopio, Kitty, Andro, Kostja, Nana, Elene, Miqa, Daria, Niza, Miro e, infine, Brilka hanno attraversato: dolce e amara al tempo stesso. È difficile descrivere l’essenza di queste pagine, so solo che catturano, cullano, fanno male e ti accarezzano. È, in alcuni punti, un pugno allo stomaco necessario. Mi auguro lo leggiate, vi auguro una buona lettura.

(foto mia)


venerdì 5 febbraio 2021

La fine del mondo e il paese delle meraviglie

 “ – Anche tu non riesci a capire bene cosa sia, il cuore?

- Ogni tanto mi succede, - dissi. – Ci sono volte in cui riesco a capirlo solo dopo che è passato molto tempo, altre volte è troppo tardi. Nelle maggior parte dei casi siamo costretti a prendere delle decisioni e ad agire quando non siamo ancora sicuri dei nostri sentimenti, il che disorienta noi stessi e gli altri.

- A me sembra una cosa del tutto imperfetta, il cuore, - disse lei sorridendo.

Tirai fuori le mani dalle tasche e le guardai alla luce della luna. Imbiancate dal chiarore lunare sembravano statue proporzionate a un mondo in miniatura, che avessero perso la loro destinazione.

- Lo penso anch’io, - dissi. – È una cosa estremamente imperfetta. Però lascia delle tracce. E noi possiamo ritrovarle, seguirle. Come si seguono le impronte lasciate sulla neve.

- E portano da qualche parte, quelle tracce?

- A noi stessi, - risposi. – Così funziona il cuore. Se non ci fosse il cuore, si vagherebbe senza fine.”

La fine del mondo e il paese delle meraviglie, Murakami Haruki

 

Edito Einauidi

Costo 15

 

Questo libro mi ha lasciata particolarmente spiazzata e con pareri e sentimenti piuttosto contrastanti. Se da un lato ho amato l’intreccio, l’idea di base, alcuni paesaggi proposti e alcune conversazioni, dall’altro non sono riuscita ad entrare completamente nella storia, a partecipare pienamente alle vicende e all’evolversi della situazione. Non so di chi sia la colpa, forse non era il periodo giusto o quello che cercavo in quel momento, forse io e il protagonista siamo troppo distanti per poterci comprendere, perciò non posso dirmi pienamente soddisfatta della lettura; ciononostante, ci sono comunque degli aspetti positivi, ovvero: i continui richiami al cuore, alla necessità che ogni essere umano ha di preservare quel muscolo ingarbugliato che ha nel petto, al ruolo dei limiti mentali che, una volta sbaragliati, ci consentono di vivere in eterno e all’importanza della nostra coscienza. È stato un viaggio nelle profondità della terra e dell’animo umano, che mi ha consentito – aspetto molto positivo - di perdermi nei tunnel sotterranei dell’inconscio, dell’invisibile e di osservare come, effettivamente, sia insito nella nostra esistenza il dualismo conscio-inconscio: dove viviamo la notte?

C’è un altro estratto che mi ha affascinato ed è il seguente: “ – Non bisogna lasciare che la fatica entri nel cuore, - disse. – Me lo ripeteva sempre mia madre. Può darsi che la fatica controlli il tuo corpo, ma fai del tuo cuore una cosa tua.

- Aveva ragione.

- Però, a essere sincera, io non lo so bene cosa sia il cuore. Che significato esatto abbia, in che modo sia meglio usarlo… per me è soltanto una parola.

- Il cuore non è qualcosa da usare, - risposi. – Semplicemente esiste. Come il vento. Basta che lei ne senta i movimenti.”

In conclusione, vale la pena leggerlo solamente per alcuni dialoghi estremamente toccanti, interessanti e acuti. Mi auguro vi piaccia e vi trascini in una fine del mondo per cui valga la pena lottare.




martedì 26 gennaio 2021

Il filo di mezzogiorno

 “Ogni individuo ha il suo segreto che porta chiuso in sé fin dalla nascita, segreto di profumo di tiglio, di rosa, di gelsomino, profumo segreto sempre diverso sempre nuovo unico irripetibile, segreto di impronte digitali graffito inesplicabile sempre nuovo diverso sempre unico irripetibile. Segreto di occhi azzurri, eco del segreto dello spazio segreto di occhi neri, eco del segreto della notte segreto di occhi grigi, eco di segreto di disegno di nuvole sempre dissimile, impensato segreto di occhi verdi, eco del segreto di profondità marine danzanti di alberi di corallo, alberi di sangue? Segreto di sangue pietrificato… ogni individuo ha il suo segreto… non violate questo segreto, non lo sezionate, non lo catalogate per la vostra tranquillità, per paura di percepire il profumo del vostro segreto sconosciuto e insondabile a voi stessi, che portate chiuso in voi fin dalla nascita sconosciuto e insondabile a voi stessi. Ogni individuo ha il suo segreto, ogni individuo ha la sua morte in solitudine… morte per ferro, morte per dolcezza, morte per fuoco, morte per acqua, morte per sazietà unica e irripetibile. Ogni individuo ha il suo diritto al suo segreto e alla sua morte.”

Il filo di mezzogiorno, Goliarda Sapienza

 

Edito La nave di Teseo

Costo 15

 

Trovare le parole per descrivere un’opera così introspettiva ed intima è difficile e, riconciliandomi al breve estratto riportato sopra, comprometterebbe la bellezza della stessa: nessuna descrizione, per quanto sentita e accurata, potrà mai definire le emozioni che queste pagine sono in grado di trasmettere a chi le legge e le ascolta.

Eppure, in linea generale, durante la lettura di questo volume, mi sono sentita esattamente come Goliarda quando scrutava l’orizzonte per cogliere il riavvicinarsi tra Sicilia e Africa: “Ma non c’era tempo per riposare a lungo, bisognava tornare a fissare il mare: sorvegliarlo, come diceva Nica. L’aria era limpida, forse era il giorno che l’Africa si sarebbe avvicinata alla Sicilia. “La viene ad abbracciare, sono sorelle, ma un malifizio ha buttato il mare in mezzo a loro, e le condanna a stare lontane, meno un giorno dell’anno: ma nessuno dei vivi e dei morti sa quando viene questo giorno, è per questo che bisogna sorvegliare sempre.” […]”. Ecco la prima sensazione che ho provato davanti a queste pagine: l’incapacità di chiuderle e lasciarle riposare, il bisogno di continuare a sfogliarle e raggiungere, così, la fine e il quadro generale. Goliarda Sapienza possiede, infatti, la grandissima capacità di sciogliere - durante la narrazione – anche i nodi più intricati e confusi (dovuti alla psiche umana); così, pezzo di puzzle dopo pezzo di puzzle, si coglie il quadro generale e le ripercussioni che questo ha avuto sulla sua anima. In particolare, ne Il filo di mezzogiorno, emergono delle situazioni (e sofferenze) – taciute in Lettera aperta – che mostrano quanto possa essere contorto e complesso il rapporto genitore-figlia/o e medico-paziente. È difficile spiegare, a chi non l’ha mai vissuto sulla propria pelle, quanto possa essere soffocante o mortale la mancanza di affetto da parte di un adulto (in particolar modo se genitore), quanto possa incidere sulla crescita di un bambino, quanto possa farlo sentire intruso o in più; ciononostante, durante la narrazione, questo viene mostrato nel modo più giusto che ci possa essere: prendendoci e prendendosi per mano e mostrandolo con la calma e la lucidità giuste. Inoltre, è interessante osservare come la mancanza di affetto si possa ripercuotere su tutte le fondamenta dell’essere: viene meno il senso di accettazione di sé, aumenta in modo spropositato il proprio sguardo critico e, nel riflesso dello specchio, non si è più in grado di cogliere se stessi, ma esclusivamente un insieme scoordinato di difetti. È ancora più interessante notare come spesso questa visione intacchi quei caratteri legati al sesso, al genere (forse perché più facilmente catalogabili o espliciti?): non si è mai o troppo femminili o troppo poco femminili (in questo caso).

Però, il rapporto maggiormente indagato tra queste pagine è quello medico-paziente o, ancora meglio, paziente-psicoterapia; un rapporto che, sin dai primi capitoli, appare fortemente delicato e fragile perché, per quanto possa mostrarsi efficace, per poter venire “messa in atto” - la psicoterapia - necessita del medico, figura non onnipotente o onnisciente o impeccabile. Emerge così il “tradimento”, l’umanità e l’incapacità di essere perfetti anche da parte dei professionisti, soprattutto quando scendono in campo le emozioni; non negherò di aver sofferto, di essere stata male ed essere rimasta profondamente amareggiata, ma – dopo un’attenta riflessione – ho realizzato che, nonostante tutto, il seme più prezioso – ovvero il riuscire a superare la mancanza d’affetto genitoriale, il riuscire a fidarsi e mostrarsi – era stato comunque piantato e che, in un altro momento, avrebbe potuto nuovamente rigermogliare. Inoltre, alla fine e paradossalmente, ho trovato Sapienza più matura e forte di quanto ritenuto anche da alcune figure professionali. In conclusione, è stata una scoperta meravigliosa: desideravo da sempre leggere e scoprire l’esperienza altrui con la psicoterapia; lo consiglio se siete curiosi, se volete conoscere questa figura così intrigante. Ringrazio come sempre Giulia di @thedevilreadseverything e il suo gdl #lamiapartedigioiagdl.



domenica 17 gennaio 2021

Il conte di Montecristo

 “«Ascoltate», attaccò il conte, e il viso gli si iniettò di fiele come il viso di un altro si tinge di sangue. «Se un uomo, attraverso torture inaudite, fra tormenti senza fine, avesse fatto morire vostro padre, vostra madre, la vostra amante, uno degli esseri insomma che quando vi vengono sradicati dal cuore vi lasciano un vuoto un vuoto eterno e una ferita sempre sanguinante, riterreste sufficiente la riparazione che vi offre la società per il fatto che il ferro della ghigliottina è passato tra la base dell’occipitale e i muscoli trapezi dell’assassino, e per il fatto che l’uomo che vi ha condannato ad anni di sofferenze morali ha patito pochi secondi di dolore fisico?»

«Sì, lo so – rispose Franz – la giustizia umana è insufficiente come consolatrice; può versare sangue in cambio di sangue, solo questo. Bisogna chiederle quanto è in suo potere, e non altro». «Senza contare che vi sto portando un esempio materiale – proseguì il conte – quello in cui la società, minata nelle fondamenta dalla morte di un individuo, vendica la morte mediante la morte; ma non esistono forse milioni di dolori che possono straziare le viscere dell’uomo senza che la società se ne curi per nulla al mondo, senza che offra quell’insufficiente strumento di vendetta di cui parlavamo poc’anzi? […]» «Sì – ribatté Franz – ed è per punire questi che viene tollerato il duello». […] «Intendiamoci: mi batterei a duello per una quisquilia […]. Ma per un dolore lento, profondo, infinito, eterno, restituirei se fosse possibile un dolore pari a quello che mi fosse stato inflitto: occhio per occhio, dente per denti, come dicono gli orientali […]». «Ma con questa teoria che vi fa giudice e boia della vostra propria causa – dichiarò Franz al conte – è arduo tenervi entro i limiti dove voi stesso sfuggireste perennemente alla potenza della legge. L’odio è cieco, la collera sventata, e colui che si mesce la vendetta rischia di bere una bevanda amara»

Il conte di Montecristo, Alexandre Dumas

 

Edito Feltrinelli

Costo 15€

 

Erano mesi che nutrivo il desiderio di iniziare quest’opera, così - verso la seconda metà di dicembre - ho deciso di farmi cullare e accompagnare dalla scrittura di Alexandre Dumas; ora, dopo averlo concluso (già da 17 giorni), posso dire di aver sempre avuto nel cuore un posticino riservato ad un’opera così avvincente, elaborata e, nel complesso, saggia. Probabilmente, ciò che più lascia esterrefatti è il realizzare quanto intricato -e perfetto- sia l’intreccio narrativo, ma non solo. Così, alla trama estremamente tortuosa, si affiancano le descrizioni di atmosfere e paesaggi cupi (si pensi al castello d’If) e incantati (si pensi al mare che circonda l’isola di Montecristo e ai continui richiami a Le mille e una notte), i ritratti straordinariamente realistici dei personaggi e le discussioni capaci di ispirare ragionamenti esistenziali.  

Il conte di Montecristo offre così tanti spunti di riflessione da non sapere esattamente definirli tutti; a quale tema affrontato assegnare, dunque, il primo posto? Non alla vendetta, che sebbene venga visto come il filo conduttore delle vicende narrate, rappresenta solamente la punta dell’iceberg: nelle profondità dell’animo umano si sfiorano molte altre sensazioni ed emozioni. Cosa spinge un uomo a dedicare così tante energie alla rivalsa? Cosa porta alla vendetta? Ciò che davvero spinge il lettore, e lo stesso Dantès, in un viaggio di 1066 pagine, tra Francia, Italia e molte altri Stati, non è forse l’amore per la dignità umana o per il ricordo di una vita degna di essere vissuta e – per questo – protetta con le unghie e con i denti? Il conte di Montecristo è immenso: dallo sconforto si passa alla speranza, dai pensieri suicidi al bisogno di ritrovare il proprio posto nel mondo. Edmond Dantès attraversa molte fasi dolorose e va incontro a grandissime privazioni, eppure si ritrova appagato dalla semplice presenza dell’abate Burioni. Quanto ci salva il contatto umano? La conoscenza di persone con cui parlare, con cui arricchire la propria esistenza? In momenti difficili, quanto è grande o sconfinato il bisogno di una figura paterna o materna al nostro fianco? Quanto è straziante venire a conoscenza del male che è stato fatto ai propri affetti in nostra assenza? Ma Il conte di Montecristo è anche perdersi tra i banditi romani, tra droghe orientali e tra mille feste e rappresentazioni teatrali. Perciò, se avete bisogno di una lettura scorrevole ed elaborata con maestria: eccolo.

(Foto mia)


mercoledì 23 dicembre 2020

Canto di Natale

“Oh, se era un osso duro, Scrooge! Un vecchio peccatore ferace, rapace, vorace, tenace, pugnace ed esigente! Duro affilato come una pietra focaia dalla quale nessun acciaio aveva mai scoccato una scintilla di generosità; chiuso e sigillato e solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva dentro gli congelava il volto vecchio, gli strizzava il naso puntuto, gli avvizziva le guance, gli irrigidiva il passo; gli faceva gli occhi rossi, le labbra sottili blu; e parlava scaltro nella sua voce graffiante. Aveva un orlo di brina sulla testa, sulle sopracciglia e sul mento aguzzo. Portava sempre con sé la sua bassa temperatura; nei giorni della canicola gli ghiacciava l’ufficio; e a Natale non lo scaldava di un grado in più. Il caldo e il freddo là fuori avevano scarsi effetti su Scrooge. Nessun tepore lo poteva scaldare, nessun gelo invernale poteva raffreddarlo. Non c’era vento più aspro di lui, non c’era neve che scendesse dal cielo più ostinata, non c’era pioggia battente meno disposta ad ascoltare suppliche. Il maltempo non sapeva come comportarsi con lui. La pioggia, la neve, la grandine e il nevischio più fitti potevano vantare di batterlo solo in un senso, ovvero che loro spesso cadevano abbandonati, Scrooge mai.”

 

Canto di Natale, Charles Dickens (tradotto da Beatrice Masini ed illustrato da Iacopo Bruno)

 

Edito Rizzoli

Costo 20

 

Il Natale, sebbene mantenga sempre il medesimo posto sul calendario, non è mai uguale a se stesso. Ci sono anni in cui lo si osserva arrivare di soppiatto ai primi di ottobre, altri in cui arriva improvvisamente verso la fine di novembre e altri ancora in cui, anche se a dicembre inoltrato, si fa fatica a sentirlo e ritrovarlo. Quest’anno, stressante sotto molti punti di vista, è possibile che lo spirito gioioso, che ha assiduamente accompagnato i nostri Natali passati, si perda nello spazio che intercorre tra mille diversi pensieri. Così, benché non esista una regola universalmente riconosciuta, risulta quasi un dovere cercare di stemperare la tristezza o l’angoscia: Canto di Natale, in questa incantevole edizione, si presta benissimo a tale impresa. È, infatti, grazie alla storia elaborata da Dickens, tradotta da Beatrice Masini ed illustrata da Iacopo Bruno che si può riflettere attentamente sul vero significato di tale festa, anche per i non credenti. Questo è davvero il periodo dell’anno in cui, con tutte le nostre forze, dobbiamo cercare di aggrapparci alla serenità e al calore; non solo per coloro che ci circondano, ma soprattutto per noi stessi: per il nostro Io del presente e per il nostro Io del futuro.

Riportando un passo del libro:

“«Natale una sciocchezza, zio?» disse il nipote. «Sono sicuro che non dici sul serio.» «Invece sì» disse Scrooge. «Felice Natale! Che diritto hai di essere felice? Che motivo hai di essere felice? Sei povero» «Su, su» disse allegro il nipote. «Che diritto hai di essere triste? Che motivo hai per essere infelice? Sei ricco.»”

È con il cuore in mano che scrivo di questo volume e cerco di capire cosa più mi abbia commosso, se il dolore vissuto dallo Scrooge bambino o la forza con cui la famiglia Cratchit affronta l’esistenza. In queste 106 pagine c’è molto da cui prendere esempio, anche a 23 o 46 o 69 anni. Vorrei davvero un mondo popolato da tanti Bob Cratchit che si inchinano e amano coloro che più hanno bisogno, proprio come Mini Tim. Inoltre, sono orgogliosa del percorso intrapreso da Scrooge, del suo ammettere l’errore e cercare di rimediare, vincendo così la paura del rifiuto. È proprio in questo che risiede la bellezza dell’opera: tutti noi, per i motivi più disparati (l’animo umano è complesso e alcune volte, stanco del dolore, può scegliere la via dell’apatia e della freddezza), potremmo ritrovarci a rifiutare di donare un gesto gentile, un tocco delicato o un semplice sorriso; ecco che, attraverso Scrooge, possiamo ritrovare la strada maestra, abbandonare l’orgoglio o l’apatia e ritrovare piacere nella condivisione. Canto di Natale è un capolavoro che, grazie all’unione di elementi gotici ad elementi socialmente didattici, può essere letto in qualsiasi momento della nostra vita. In aggiunta, le figure che prendono vita durante la lettura riescono ad incantare anche l’animo più cinico: “«Io sono il Fantasma del Natale Presente» disse lo Spirito. «Guardami!» Scrooge lo fece con grande reverenza. Indossava una semplice tunica, forse un manto verde scuro orlato di pelliccia bianca. La veste gli si posava così sciolta sul corpo che l’ampio petto era scoperto, come se disdegnasse di essere riparato o nascosto. I piedi, che spuntavano sotto le ampie pieghe della veste, erano pure scalzi e sulla testa portava a mo’ di unico copricapo una ghirlanda di agrifoglio punteggiata qua e là da ghiaccioli scintillanti. I ricci scuri erano lunghi e liberi: liberi come il volto allegro, lo sguardo sfavillante, la mano aperta, la voce gioiosa, l’espressione spontanea, e l’aria lieta. Attorno alla vita portava un antico fodero privo di spada, e la vecchia guaina era divorata dalla ruggine.”

È questo lo Spirito che più mi ha colpito: nonostante sia consapevole della brevità della sua esistenza (“Un’altra cosa era strana: mentre Scrooge restava immutato nella sua forma esteriore, il Fantasma diventava più vecchio. Visibilmente più vecchio […] «La vita di uno Spirito è così breve?» chiese. «La mia vita su questa terra è molto breve» rispose il Fantasma. «Finisce stanotte.»”), si mostra comunque vitale, pieno di forza, gioia e amore. In particolar modo, non rifiuta i due Figli dell’uomo che gli si aggrappano con tutte le loro forze: Ignoranza e Bisogno (o Miseria). È davvero impossibile cercare di prolungarne l’esistenza dello Siprito del Natale presente? Non dovremmo forse cercare di serbare tutto l’anno questo calore?

Concludo ringraziando @attimidiprosablog per aver organizzato tutto, la casa editrice Rizzoli per aver concesso la recensione di questo bellissimo volume e i miei compagni @metanfetalibri, @laragazzacalabrese e @underbrushink.

Di seguito i link dei blog:

Attimi di prosa (link per il suo blog: www.attimidiprosa.bolgspot.com)

Appunti di un lettore compulsivo (link per il suo blog: www.appuntidiunlettorecompulsivo.blogspot.com)

La ragazza calabrese (link per il suo blog: www.laragazzacalabrese.blogspot.com)

Underbrushink (link per il suo blog: www.underbrushink.blogspot.com)



domenica 13 dicembre 2020

Il popolo degli alberi

“ “Molti anni fa, molti, moltissimi anni prima dell’era dell’uomo, c’era una grande pietra, un dio, di nome Ivu’ivu, che regnava incontrastato su un vasto regno d’acqua. Era molto potente, questo dio, e il suo dominio comprendeva ogni cosa sotto la superficie del mare: il suo era un regno di squali che sbattevano la coda e mostravano i denti, di giganti balene cieche e di branchi di pesci e campi danzanti di alghe che accarezzavano il fondo come capelli di ninfe.

“Ma Ivu’ivu si sentiva solo. Tutto intorno vedeva accoppiarsi le bestie: si univano e si riproducevano e gli nuotavano accanto, seguite dalla scia dei loro piccoli. Anche i più solitari dei suoi sudditi – i paguri nei loro gusci spiraliformi e maculati e le stelle marine che strisciavano coperte di spine – erano circondati di figli. Essendo un dio, Ivu’ivu non era preoccupato di morire, ma pensava che gli sarebbe piaciuto avere qualcuno per compagnia, qualcuno con cui condividere il fardello e le difficoltà di essere dio e re, con cui poter far nascere una sua razza di bambini. Ma a questo scopo gli sarebbe servito un altro dio, suo pari.

“Ivu’ivu aveva un caro amico, una tartaruga che si chiamava Opa’ivu’eke: era vecchio quasi quanto lui e, siccome poteva vivere sia nell’acqua che fuori, aveva viaggiato in lungo e in largo e aveva raccolto tante storie meravigliose su luoghi che Ivu’ivu non aveva mai visto. […]

“Un giorno Opa’ivu’eke stava raccontando a Ivu’ivu i suoi viaggi più recenti, e il dio sospirò. ‘Cosa c’è che non va, amico mio?’ chiese Opa’ivu’eke.

“ ‘Ah, amico caro,’ rispose Ivu’ivu, ‘mi sento solo. Tutto intorno a me vedo felicità, animali che si tengono compagnia. Anch’io voglio un compagno, e dei figli. Ma mi serve un altro dio, e in questo mondo può esserci un solo regnante.’

“La tartaruga rimase in silenzio per un pezzo. Poi disse addio al suo amico e nuotò via.

“Tempo dopo la tartaruga fece ritorno, di nuovo con notizie strabilianti, ma stavolta erano ancora più strabilianti di quanto il dio potesse sperare. Nel suo viaggio più recente fuori dall’acqua, Opa’ivu’eke aveva parlato a un suo amico, A’aka, il dio del sole, e gli aveva spiegato il desiderio di Ivu’ivu. A’aka rispose che avrebbe conosciuto con piacere questo potentissimo dio dell’acqua di cui aveva tanto sentito parlare. Fu così che cominciò la storia d’amore tra il dio dell’acqua e il dio del sole, con la tartaruga a fare da messaggera. […]

Opa’ivu’eke non era un dio, naturalmente, ma era, ed è, sempre onorato non solo dai suoi due amici, ma da tutti i discendenti dei suoi amici […]. È per questo motivo che quando un uomo ha la fortuna di trovare un’opa’ivu’eke, deve fare un sacrificio agli dèi e mangiare la sua carne. Farlo significa mandare un messaggio agli dèi, una preghiera di ricevere la cosa che A’aka aveva negato – con l’approvazione di Ivu’ivu - ai suoi nipoti: l’immortalità. E forse un giorno gli dèi sapranno rispondergli.” ”

Il popolo degli alberi, Hanya Yanagihara

 

Edito Feltrinelli

Costo 18

 

Non so bene con quali parole introdurre quest’opera così intensa, potente e, per certi versi, intricata (perché le questioni affrontate sono tutt’altro che banali), quello che so per certo è che è riuscita a stimolarmi, a farmi affezionare ad un posto inesistente (ma, alla fine, chi può dirlo?) e alla vita umana nella sua semplicità e arcaicità. Così, quando ripenso a questo romanzo, non posso fare a meno di commuovermi per tanti motivi e ragioni diverse. In particolare, nel mio cuore un posto profondamente speciale è ora occupato da Ivu’ivu, così descritta nelle prime pagine da Ronald Kubodera – collega e amico di Norton Perina: “Lì è tutto più grande e puro e stupefacente di quanto non si possa immaginare, e in ogni direzione si apre una vista più spettacolare dell’altra: da un lato, una distesa infinita d’acqua, tanto immobile e intensamente colorata che non la si può guardare troppo a lungo; dall’altro, le falde lunghe e profonde della montagna, i picchi che scompaiono nella spuma della nebbia”. Ivu’ivu non è solo un’isola micronesiana: è un posto magico, dove i pochi esseri umani che vi abitano vivono in simbiosi con un’infinità di altri organismi ospitati nelle fitte ed umide foreste. Ogni volta che ripenso a Norton, il protagonista umano del romanzo, realizzo quanta fortuna abbiano avuto gli esploratori che, come lui, nei secoli passati hanno potuto apprezzare e ammirare il perfetto equilibrio tra le varie specie. Le vicende che lo hanno coinvolto (ovvero la scoperta che l’ingestione della carne di una particolare specie di tartaruga -l’opa’ivu’eke appunto- possa rendere ‘immortali’), mi ricordano l’immenso ed inconsapevole potere della natura: quanti elisir d’immortalità o altre sostanze estremamente utili abbiamo perso o perderemo con la distruzione di interi ecosistemi?

Eppure, al sentimento di invidia, nei confronti di coloro che hanno potuto godere della vista di un mondo incontaminato (se così vogliamo definirlo), si affianca ben presto un sentimento di commiserazione per gli stessi: quali decisioni etiche hanno dovuto prendere? Cos’è più importante: la spinta verso la ricerca e la scoperta o salvaguardia dell’ecosistema?

Non negherò – sulle prime – di essermi rammaricata ed irritata per le decisioni prese da Norton, ritenendolo l’unico responsabile dei nefasti cambiamenti cui andranno incontro Ivu’ivu e i sognatori (coloro affetti dalla malattia di Selene - così chiamata nel libro, una patologia che colpisce coloro che assumono l'opa'ivu'eke: non invecchiano ma vanno incontro ad una degenerazione di alcune aree dell'encefalo); ma, dopo un’attenta riflessione, mi sono ritrovata a perdonarlo. Lo perdono perché, se mi fossi trovata nella sua stessa situazione, ovvero ad un passo dall’infondere stabilità al mio futuro, avrei probabilmente preso le sue stesse decisioni; il perdono, però, non cancella il dolore che si prova davanti allo scempio che è stato commesso, non solo dal punto di vista ecologico, ma soprattutto etico. Non smetterò mai di ripensare con le lacrime agli occhi ai sognatori e alle opa’ivu’eke, a quanto fossero indifesi ed innocenti.

Infatti, oltre ad essere un romanzo in cui la questione ecologica è in primo piano, è anche un’opera che fa riflettere dal punto di vista morale; basti pensare che le vicende narrate si ispirano alla storia del virologo statunitense Daniel Carleton Gajdusek: questi, dopo aver vinto il premio Nobel per la medicina nel 1976 – grazie alle sue ricerche sul kuru, malattia prionica ed endemica della Nuova Guinea, venne accusato (e condannato) di molestie da parte di diversi bambini affidati alle sue cure.

In conclusione, è un libro complesso, emozionante, elaborato con maestria (l’unica pecca è la traduzione, sono presenti frequenti refusi) e in cui è presente un perfetto mix tra scienza, etica, ecologia, morale e fantasia. Lo consiglio con tutto il cuore, ma attenzione a maneggiarlo con cura.



Un giorno tutti diranno di essere stati contro

 “Oggi ho visto il filmato di un uomo che baciava il piede del figlio mentre lo seppelliva. Il corpo era talmente dilaniato dai missili che ...